Dave Davies

Rippin' Up Time

2014 (Red River)
baroque-pop, rock

My sisters sing and dance around the gramophone
blaring out Little Richard and Fats Domino
We started a band, rehearsed all plugged into one amp
with Pete, Ray and Jonah from next door

 

Ne è passata parecchia di acqua sotto i ponti di Londra da quando quel piccolo amplificatore verde iniziò a ruggire. La band nacque, disse la sua, e da tanto tempo è svanita. Eppure i Kinks ci sono ancora, in un certo senso, più apprezzati oggi di quando sfornavano i loro dischi incredibili negli anni d’oro. Se le loro melodie immortali confermano tutta la freschezza di allora, i fratelli Davies vivacchiano in qualità di sopravvissuti, tra reunion vagheggiate a scadenze regolari e vecchie faide ormai incomprensibili. Ray è stato celebrato per il suo genio da artisti più giovani come Damon Albarn, e si è tolto qualche soddisfazione anche da solista. Al più mite Dave non è andata altrettanto bene. I dischi a suo nome si sono sempre rivelati dei fiaschi e un’emorragia cerebrale nel 2004 lo ha costretto a ripartire da zero, letteralmente: parlare, camminare, suonare, cantare, tutte facoltà da riconquistare come vette impervie.

Quanto sia stato faticoso il suo ritorno alla musica si può ben immaginare, così come l’insopprimibile urgenza che lo ha guidato su un terreno reso oltremodo accidentato dalla malattia. “Rippin’ Up Time” è il terzo e più significativo capitolo di questa nuova fase della sua vita, e ne illustra senza filtri i complicati equilibri. Per l’ascoltatore che ami crogiolarsi nei ricordi l’incontro con il minore dei Davies oggi non potrà che risultare alquanto sconfortante: legnoso, intorpidito, spesso non al passo con gli strumenti e in perenne affanno, Dave pare tradito dalla sua stessa voce, una fonte prosciugata. Nel caso dell’opener non aiuta certo l’accompagnamento di un hard-rock slabbrato, brutta caricatura della band di “The Kink Kontroversy”, alquanto confuso e vanamente anabolizzato dai watt. La prima impressione è di tetra ambascia, straziante per come induca empaticamente a soffrire con l’autore di “Death Of A Clown” e a silenziare il proprio naturale imbarazzo. Le cose migliorano appena con la fanghiglia darkwave di “Semblance Of Sanity” e i suoi pesanti debiti verso le trascurabili produzioni eighties del gruppo inglese, fascino inquieto compreso. Si potrebbe allora scommettere su un'ulteriore mezz'ora di impietosa agonia, ma la verità è che, giunti a questo punto, il peggio è già alle spalle.

In “King Of Karaoke” aromi latin quantomeno curiosi si dimostrano ben amalgamati con le tonalità da crepuscolo nel Dna dei Davies da sempre. Seppur ad handicap, il revival si fa piacevole e arguto nel ritratto di un formidabile animale da bar. E’ l’occasione propizia per riconoscere in filigrana lo sfaccettato talento dell’artista, gigionesco nel dispensare citazioni da alcuni grandi classici del passato, da “My Sharona” a “Good Vibration”, da “Paperback Writer” a una certa “Sunny Afternoon”. E così dopo un po’, con indulgenza, quella voce impastata quasi scompare e si può ascoltare il disco con altre orecchie, più rilassate e tolleranti di fronte a questa ostinata voglia di raccontarsi ancora attraverso le canzoni. L’immersione nel passato remoto si fa davvero sincera e commossa, se il ritorno alla “Front Room” in Denmark Terrance dove tutto cominciò chiude una ballata Americana in stile Jayhawks (amici già ospiti nel precedente, mediocre, “I Will Be Me”) con i lineamenti inconfondibili di una cinquantenne extralusso, “You Really Got Me”.

Impreziosito da un apprezzabile senso di meraviglia, il clima resta questo per un po’: dal divertito garage vecchia scuola di “Nosey Neighbours” alla ballad al pianoforte, enfatica ma sincera in modo disarmante, di “Between The Towers”, e dai riffoni hard ben torniti di “Johnny Adams” al blues ispido e ferroso di “Mindwash”. Dave non si nasconde. Si mostra per quel che è tra difficoltà e brutture oggettive, e il suo coraggio merita rispetto. Gli va dato atto di aver davvero gettato il cuore oltre l’ostacolo senza risparmiarsi, confezionando un album suonato con la dovuta passione. Certo, si farà presto a liquidarlo come un’operazione patetica. Dipende dall’angolo di osservazione che si sceglie di adottare, dal tasso di cinismo nel proprio sangue e da quel che si è soliti chiedere alla musica. A sconfessare i detrattori risoluti pensa nei due episodi conclusivi il chitarrista stesso, supportato a dovere dal figlio Russ. In “In The Old Days” la celebrazione dei trascorsi è accorata ma non si trincera in una contemplazione idilliaca o eccessivamente nostalgica. Davies, che a tratti rispolvera l’ardore proto-punk di un tempo, mantiene infatti un certo distacco e si mostra lucidissimo.

Questo appena prima di un epilogo commovente in cui anche la solitudine e l’inadeguatezza vengono trattate senza artifici o belletti, con onestà sconvolgente e irriducibile amore per la vita. In quanto a dignità e umanità, una lezione che anche l’intransigente fratello Ray dovrebbe far propria.

29/12/2014

Tracklist

  1. Rippin’ Up Time
  2. Semblance Of Sanity
  3. King Of Karaoke
  4. Front Room
  5. Johnny Adams
  6. Nosey Neighbours
  7. Mindwash
  8. Between The Towers
  9. In The Old Days
  10. Through My Window

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