Dir en grey

Arche

2014 (Firewall Div.)
alt-prog-metal, alt-rock

Concessisi lo sfizio di commettere un brutto passo falso otto anni fa, all'altezza di quel “The Marrow Of A Bone” che li vide flirtare senza particolare successo con screamo, metalcore e più pura ricerca vocale, da lì in poi i Dir en grey, la più eversiva e sorprendente rock-band giapponese degli ultimi quindici anni o giù di lì, non soltanto ha ingranato una marcia in più, ma ha messo a tacere una volta per sempre chi sostiene che una formazione con esperienza pluridecennale non sia capace di svolte inaspettate e prove maiuscole. Dapprima “Uroboros”, il capolavoro della maturità, con le sue aspre qualità melodrammatiche e la sua coriacea scorza tra progressive, thrash-metal e hardcore, faceva terra bruciata attorno a sé, di fatto azzerando ogni possibile paragone e suonando simile soltanto a se stesso. Poi, a tre anni di distanza, presisi tutto il tempo necessario per dare al mondo un seguito di livello, “Dum Spiro Spero”, con le sue contorte e violente aperture in fascia doom/death, con quei cataclismi sinfonici da far quasi impallidire Gnaw Their Tongues, Kyo e soci non soltanto hanno ridefinito un'estetica già di per sé unica nel suo genere, ma l'hanno caricata al contempo di nuovi significati, inasprendo i contrasti e dando maggiore centralità all'elemento più direttamente emozionale delle composizioni. Nuova pausa di tre anni (intervallata giusto da un interessante quanto estemporaneo Ep di self-cover), e “Arche” sbalestra di nuovo ogni concezione sul quintetto. Concessisi quello sfizio nel 2007, hanno deciso evidentemente di non commettere mai più un simile errore.

“Arche”: l'origine, il principio da cui tutto trae inizio. I Dir en grey non sono propriamente nuovi a concept sontuosi, a inattesi sincretismi culturali e riflessioni ad ampio raggio, volte a scandagliare le pulsioni più torbide dell'animo umano, ma questa volta sembrano averla fatta realmente grossa, in un ideale ritorno contestuale a quel “Gauze” che nel 1999 li presentò come una sorta di trasposizione musicale delle pellicole di Takashi Miike. Quella violenza anarchica e surreale che animò il folgorante esordio adesso però ha trovato uno spazio più elegante in cui risiedere, esprimendosi attraverso strade forse più impervie, ma non meno suggestive e decisive nel trasmettere il messaggio.
L'origine insomma: da non interpretarsi in senso biblico, ma come sorgente, scaturigine iniziale, di vita forse, ma anche di ciò che la stessa vita implica. Nel caso dei Dir en grey, questo archetipo è da individuarsi nel dolore, in una delle spinte più devastanti, ma allo stesso tempo più necessarie dell'agire di ogni essere vivente. Un dolore totalizzante, colto in tutte le sue sfumature, capace di infinita sottigliezza quanto di insopportabile maestosità, perfido quanto desiderato: un sound come quello di “Arche”, con le sue sfaccettature da prisma ben lavorato, con le variazioni di chiara matrice progressive, era il tramite sonoro più adatto a supportare le spigolosità tematiche di Kyo, che sacrifica parte della sua tentacolare teatralità espressiva a favore di un gioco lirico meno vistoso nei contrasti. Ciò non significa che si opti per il percorso più immediato.

Indubbiamente, rispetto al suo diretto predecessore, nei solchi dell'ultimo lavoro traspare un'accessibilità, una linearità (termini da prendere con le pinze, naturalmente!) che nelle pieghe di “Dum Spiro Spero” semplicemente non c'era. L'avvicinamento alla melodia (o lo sconfinamento diretto in quest'ultima) in un certo senso è sempre stato una prerogativa della band, ma era da tanto tempo che un set di loro brani non appariva così apparentemente decifrabile, così poco spaesante a un primo impatto. Le asperità, comunque rilevabili, si mettono in evidenza pian piano, rendono l'ascolto una continua sorpresa, anche per chi è avvezzo alla parabola artistica della band.
Le aperture gotiche in fascia Kuroyume di “Phenomenon”, l'hardcore scoppiettante e irrefrenabile di “Cause Of Fickleness”, con tanto di falsetti operistici in zona j-wave, le deviazioni melodiche da power-ballad nella successiva “Tousei”: nell'arco di soli tre pezzi, i cambi d'abito, per quanto sempre riconducibili a cromie fosche e tenebrose, sono ben distinguibili, le particolarità messe in campo non si perdono tra appiattimenti produttivi di poco valore e imprendibili muri di suono.
Non manca poi qualche più prescindibile scollinamento in direzione thrash-core (“The Inferno”), come qualche piccola concessione ai famosi numeri vocali di Kyo, sempre diretto portavoce emozionale di ogni singolo frammento lirico, ma la sapienza compositiva del gruppo sa mettere da parte ovvietà e imbarazzi e sfruttare tutta la classe acquisita nel corso degli anni per lasciare la propria impronta anche a quasi venti anni dall'esordio.

Die, il chitarrista della band, ha dichiarato che con “Arche” i Dir en grey hanno ottenuto il loro sound più rifinito di sempre. Chi scrive non se la sente di condividere così tanta auto-indulgenza promozionale, ma è certo che, anche senza raggiungere la completezza e il grado di rifinitura delle due precedenti collezioni, quest'ultima fatica non fa altro che perpetuare il mito di una formazione che, in un modo o nell'altro, in Giappone (e non soltanto) ha scritto capitoli importanti del rock, pesante o meno che sia. La speranza a questo punto è che mantengano intatto questo stato di grazia il più a lungo possibile.

21/01/2015

Tracklist

  1. Un Deux
  2. Soshaku
  3. Uroko
  4. Phenomenon
  5. Cause Of Fickleness
  6. Tousei
  7. Rinkaku
  8. Chain Repulsion
  9. Midwife
  10. Magayasou
  11. Kaishun
  12. Behind A Vacant Image
  13. Sustain The Untruth
  14. Kuukoku No Kyouon
  15. The Inferno
  16. Revalation of Mankind


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