Arrivano dalla Scozia e la prima l'han messa in scena in meno di dieci giorni negli studi di Peter Ketis (The National, Interpol e Fat Cat Records in generale): le Honeyblood mostrano finalmente le unghie dopo un periodo passato a mangiarsele con vari Ep, ormai passaggio obbligato nella carriera indipendente di chiunque appartenga agli addetti ai lavori.
L'esordio omonimo per Fat Cat è un'incognita. Le due indovine di Glasgow, Stina Tweeddale alla chitarra e la voce e Shona McVicar alla batteria, cercano di dare risposte dal basso profilo e perseguitano la visione lo-fi, post-grunge ormai dimentica dell'anno passato (Speedy Ortiz, Savages, Pins, Big Deal).
Le due gigioneggiano sul DIY e su quella impressione ballerina che l'home-made debba essere metafora di qualità artistica. La resa qualitativa è sinonimo di perseveranza e cura dei dettagli. Il genio è altro. Può derivare dal "fatto-in-casa" ma rare, uniche sono le occasioni.
Quindi la Glasgow femminina fatica a scaricare quella sprizzante dose di bollicine e freschezza che ci potevamo aspettare, nonostante qualche passaggio possa risultare interessante ("Choker", "All Dragged Up").
Niente a che vedere con altri esordi femminili eccellenti dello scorso anno (Savages su tutti) oppure con i paragoni che altri han proposto per questo duo britannico (Dum Dum Girls, PJ Harvey, Haim): le Honeyblood sono qualcosa di simile alle Bleached ("Killer Bangs", "Joey", "Fortune Cookie") - quindi Ramones e lo fi-punk - e i Metric ("All Dragged Up", "Super Rat") convogliati in una stanza in cui suonano i Sonic Youth ("Fall Forever") e i Pixies in pubertà ("Biro", "No Spare Key").
Difficile promuoverlo, faticoso bocciarlo.
14/07/2014