Matteah Baim

Falling Theater

2014 (Kobalt)
songwriter, art-folk

C'è ben poco da farci: ogni volta che Matteah Baim decide che è finalmente giunto il momento di lasciar apprezzare il frutto dei suoi sforzi artistici, è l'occasione adatta per poter gustare attimi di puro rapimento, intrisi di una magia gentile, delicata come una carezza. Certo, a questo giro abbiamo dovuto attendere più del previsto per accedere al suo piccolo giardino di primizie (la bellezza di un lustro), ciò però non toglie che questa stessa attesa sia stata del tutto ripagata, mantenendo, anzi rafforzando, la cifra stilistica di un progetto tra i più genuinamente poetici in circolazione.
Vero è che con una mente creativa come quella della cantautrice del Wisconsin si ha forse partita facile. Difficile trovare in tempi recenti una con un curriculum che annoveri, tra le varie cose, anche un talento non disprezzabile come pittrice e poetessa: giusto la caratura espressiva di Mia Doi Todd ha saputo in tempi recenti interpretare così tante vie artistiche senza cadere nella più bieca banalità. Il “tiro” però, alla volta di quest'ultimo “Falling Theater”, non soltanto non accenna a scemare, ma scopre invece un'unitarietà e un senso della progettualità che nelle acide peregrinazioni dei precedenti dischi non avevano trovato ancora sufficiente spazio di manovra. Superfluo sottolinearlo, ma nella maggior coesione del lavoro (dettata anche dalla durata ristretta, poco più ampia di quella di un normale Ep) si annida gran parte del successo di una raccolta destinata a perpetare il culto di un'artista decisamente unica nel suo genere.

Un po' alla stregua della Julia Holter del superbo “Loud City Song”, l'ispirazione, il motivo fondante di questa nuova collezione di incantati quadretti va fatta risalire a un soggetto antecedente la Seconda Guerra Mondiale, a un mondo che, per ragioni temporali, non può più appartenerci se non attraverso la rievocazione e la rielaborazione di ricordi che ormai sono proprietà di pochissimi sopravvissuti. Se in un caso il nucleo tematico derivava dalle parole racchiuse nel romanzo breve di Colette “Gigi”, poi portato con successo a teatro da un'Audrey Hepburn ancora agli inizi, è questa stessa ambientazione, nelle sembianze decadenti dei palcoscenici cinematografici che pullulavano per gli Stati Uniti negli anni Quaranta, successivamente demoliti a favore di impianti più moderni, il soggetto prescelto dalla Baim per il suo terzo lavoro.
Un soggetto indubbiamente rivisitato e tratto in maniera tutt'altro che diretta, ma del cui mood si abbevera in continuazione, sia sotto l'aspetto lirico sia per quel che riguarda le dinamiche compositive, ancora una volta gelosamente custodite sotto un manto di pacata rilassatezza. Lo spirito romantico, ricolmo di una tremula nostalgia, della sua arte rivive quindi attraverso un gioco di specchi in cui i testi, forti di una grande caratterizzazione introspettiva, sanno esplicitare il lento scomparire di un'epoca tanto lontana nel tempo quanto vicina nella mente: poco importa se la sua prefigurazione si discosta infine dalla realtà.

Rituali pagani dal sapore antico (il giro melodico di “All Night”: qui emerge in tutto il suo candore la statura da pre-war muse che l'ha lanciata nell'attuale firmamento folk statunitense) e composizioni più classiche invece nella costruzione (il trasporto in sordina di “Good For Two”, la toccante energia in minore di “Peach Tree”, totalmente compiuta pur in tutta la sua brevità) mostrano nuovamente la fortissima caratterizzazione impressa dalla Baim alle proprie creazioni, uno stupore psichedelico che non accenna mai a venire fuori realmente, eppure impregna ogni singolo dettaglio, ogni frammento sonoro della collezione.
Basta soltanto prestare ascolto all'accoppiata conclusiva “Familiar Way”-“Blindman's Hands” perché l'assunto risulti evidente: per quanto proemio e corpus effettivo di un mantra dalle sinuosità in scia shoegaze (in assoluto la cosa più vicina al misticismo ambient del progetto Metallic Falcons), il discorso non prende mai la piega di intrepidi muri di suono o delle malinconiche derive pop da Captured Tracks e dintorni, piuttosto scorre placido, delicato, con una gentilezza che volge il suo sguardo più alla New Weird America dello scorso decennio che all'attuale universo indipendente statunitense.

Da qualsiasi lato lo si prenda insomma, questo “Falling Theater” rappresenta pienamente, negli abiti e nell'espressività, il coronamento di un percorso che nella ricerca di una serenità, tanto esteriore quanto interiore, ha trovato del tutto la sua logica d'essere. Non si interpreti quindi negativamente l'assetto tematico che ispira il lavoro: nella purezza del ricordo, nello sguardo incantato verso il mondo e la sua storia, niente può davvero sembrare terribile. Con buona pace di chi non fa che crogiolarsi nel proprio disfattismo.

07/08/2014

Tracklist

  1. Blossom
  2. Good For Two
  3. All Night
  4. Old Song
  5. Peach Tree
  6. Dude
  7. Familiar Way
  8. Blindman's Hands

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