Origamibiro è la più recente e fulminante delle scoperte di casa Denovali. Recuperato a inizio anno dal catalogo della Expanding del magnate dei synth analogici Benge, è di un progetto dalle anime variegatissime, un autentico crossover artistico iniziato anni or sono dalla mente dell'ex-Wauvenfold Tom Hill e apertosi solo successivamente a una serie di altre figure, le più longeve delle quali - Andrew Tytherleigh e il regista Jim Boxall - compongono ancora l'attuale formazione. Il lancio del brand era avvenuto con la più tipica operazione in stile Denovali, un delizioso cofanetto che raccoglieva tutte e tre le prime testimonianze discografiche di un'esperienza che già al tempo mostrava una grande varietà di potenziali articolazioni stilistiche.
Neanche il tempo di farsi conoscere che Hill e soci giungono a pubblicare il loro primo lavoro inedito per l'etichetta tedesca, una ripartenza che recupera la dimensione sonora del precedente “Shakkei” per evolverla verso un ulteriore e definitivo spoglio dalle componenti più sperimentali. Il sentiero intrapreso volge stavolta a una forma effimera di modern classical, in quello che è un mix di sample e field recordings naturali, mini-sinfonie cameristiche e digressioni soliste di strumenti acustici, in particolare chitarra e pianoforte. Si mantiene ed è forse addirittura enfatizzata la dimensione autunnale e naturalistica, da sempre tratto somatico delle sonate di Hill e soci, di sicuro fra gli esponenti più “romantici” mai affacciatisi a un panorama di norma fin troppo razionale.
Quel che risalta subito, anche a un ascolto superficiale, rispetto ai precedenti capitoli è uno sfruttamento decisamente maggiore di cliché e artifici del caso, la perdita parziale di quel carattere selvaggio e irrequieto proprio soprattutto del primo “Cracked Mirrors & Stopped Clocks”, in favore di una dimensione maggiormente “intellettuale”. Non per questo vengono a mancare una manciata di sorprese, indicative di una sequenza di possibili nuove vie da percorrere: il coloratissimo caleidoscopio dell'iniziale “Ada Deane”, il pendolo espressionista di “Direct Voice”, il groviglio di arpeggi di “Armistice Cenotaph”, il carillon velato di zucchero in crescendo d'archi di “Butterfly Jar” e l'estasi in chiusura di “Feathered”. Tutte porte che restano apertissime per un futuro dai tanti possibili volti.
Nei rigurgiti piovosi della title track e nei fotogrammi in bianco e nero di “Raising William” il mestiere diviene componente decisiva, ben dosata e iniettata in maniera meticolosa solo laddove ne si sente il bisogno: una capacità tecnica sopraffina, sfruttata però per nascondere qualche lacuna di troppo a livello ispirativo, che si ripropone in maniera più evidente negli svolazzi asettici di “Tinder”, negli arpeggi nel vuoto di “The Typophonium” e nelle monotone falcate di violoncello di “Pulmonary Piano”. Tre episodi dove pure la messa a fuoco viene a mancare, complice soprattutto l'evidente ruolo di “disco di transizione” che questo “Odham's Standard” pare ricoprire, da un passato sperimentale e astratto a un futuro prossimo fatto di suggestioni con lo sguardo volto a quella modern classical la cui breccia si mantiene in vertiginoso aumento.
08/04/2014