Bassista e vocalist psicotico dei benemeriti One Dimensional Man dei primi tre classici album, Pierpaolo Capovilla inizia il processo d’ingigantimento dell’ego poetico proprio all’indomani del terzo “You Kill Me” (2001), non a caso l’inizio dello sfavillante successo all’interno del popolo alternativo italiano, sugellato tre anni dopo dal quarto e più pop “Take Me Away”.
L'impegno civile è sempre stato una sua caratteristica, ma l'inclinazione alla cronaca nera e alle storie di soprusi e ingiustizie trova un primo apice in “E lui cantava”, dedicata a Peppino Impastato, comparsa in una compilation tributo del Manifesto (2004), per la prima volta cantato in italiano. Questa piccola esperienza è anche il germe del progetto Teatro Degli Orrori, la cui mistura di j’accuse Guccini-iani e passi cingolati Jesus Lizard-iani nel debutto "Dell'impero delle tenebre" (2007) lo impone per la prima volta all’attenzione nazionale.
I seguiti, “A sangue freddo” (2009) e il discusso “Il mondo nuovo” (2012), sono sempre più centrati sul suo carisma di fustigatore, mentre l’album di reunion degli One Dimensional Man (“A Better Man”, 2011) è perlopiù una pontificante rimpatriata che non ha più nulla del sound storico. Questi dischi fruttano comunque l’esibizione al concertone del Primo Maggio 2012. Conscio ormai della sua potenzialità, Capovilla prende a esibirsi da solo nei teatri in reading di poeti beniamini del fronte anarchico come Majakovskji e Pasolini, e arriva persino a collaborare con artisti commerciali come Piotta e Marina Rei.
In questo senso il suo primo albo solista, “Obtorto Collo”, è il logico sfogo di questa catena di successi. Il suo tono è ormai tenuamente fatalista, neanche lontano parente delle sceneggiate esagitate dei primi One Dimensional Man. Musicalmente confuso tra canzoni quasi-radiofoniche ed esosi esperimenti di produzione, l’album nel suo insieme è di fatto un concept di elegie amorose e dediche personali e poetiche (che raramente scuotono).
Il folk di protesta di “Il cielo blu” e quello di derivazione Capossela di “Quando”, la fiacca hit “Dove vai” e le ballate “Irene” (orchestrale), “Come ti vorrei” (gotica) e “La luce delle stelle” (percussiva) sono così tutte variazioni che cercano di camuffare la sua limitata scrittura e la sua limitata capacità interpretativa, che invece ricade sempre nel poetare autoferenziale.
Solo grazie a due imitazioni Capovilla riesce ad addentrarsi nell’inferno metropolitano: l’incubo Nick Cave-iano della title track, per pianoforte selvaggio e soundscape industriale, e il paludoso incubo dissonante Tom Waits-iano di “Invitami”. Altre due scheletriche, ipnotiche odi da camera come “Arrivederci” e “Ottantadue ore” rendono poi ridicolo il massimalismo da crooner di Broadway che ammorba “Bucarest”.
Co-scritto con Paki Zennaro, prodotto da Taketo Gohara e dal fido Giulio Favero, è - sulla carta - il punto d’approdo del suo stile, dello stile maledettista italiano, intriso di sconsolata poesia crepuscolare post-recessione. Troppo spesso sopra le righe in molti sensi. La quantità di riferimenti, anche testuali, come la solenne dedica a Zanzotto, e di sottogeneri pop, fa una certa impressione, ma la sua monotonia non giustifica tanto generoso eclettismo. La traccia migliore è rimasta fuori: “Un sogno a colori” (solo streaming). Nello stesso filone la vera originalità è del ben più umile Fabrizio Testa. Co-edito da Virgin Italia.
05/06/2014