E allora rimasero in tre. Con Robbie Williams nuovamente fuori dai giochi (finché non necessiterà di un nuovo rilancio pubblicitario) e il ballerino/corista Jason Orange in prepensionamento per la sempre più marcata mancanza di coreografie da abbinare alle loro canzoni, i Take That si reinventano come trio vocale e, in barba ai sempre numerosissimi detrattori, portano avanti la loro testarda, e sinora fruttuosa, battaglia per dimostrare che persino una ex-
boyband può aver una dignitosa ragion d’essere una volta superati i quarant’anni d’età e i venti di carriera.
Ci riescono riconfermando nuovamente la buona vena da
songwriter di Gary Barlow, che ritrova in Mark Owen e Howard Donald, sempre sgraziati vocalmente, due spalle tutt’altro che superflue, e affidando le loro canzoni alle cure di due super-produttori come l’ormai fidato
Stuart Price e l’attualmente gettonatissimo
Greg Kurstin. E mostrando soprattutto un fiuto nel scegliere la scena musicale in cui ricollocarsi davvero sorprendente, anche se la mossa potrebbe inizialmente disorientare non poco il loro fedelissimo
fanbase.
Messe da parte sia le ballate strappacuore che la svolta
electro del precedente album, il convincente “
Progress”, stavolta i Take That non sembrano far il verso ai
Killers, nonostante la sontuosa progressione di “Freeze” potrebbe sucitare l’invidia di
Brandon Flowers o dei
Keane, ma realizzano un lavoro che si regge prevalentemente su un
sound decisamente più americano e attualmente di grande successo, soprattutto presso quella fascia di pubblico che comprende proprio le loro ex-adolescenti fan. Quello che fa sfoggio di ritmiche etniche, di liberatori cori da stadio e atmosfere tanto ariose quanto pestone.
I tre si trasformano insomma in una versione edulcorata, meno testosteronica ma altrettanto romantica, dei One Republic e degli Imagine Dragons, a volte centrando l’obiettivo e riuscendo a suonare credibili, senza snaturarsi troppo (“Into The Wild”, “Higher Than Higher” e " Do It All For Love"), altre rimanendo col fiato corto all'inseguimento di un’aggressiva epicità che non appartiene alle loro più eleganti corde (“Get Ready For It” e “Let In The Sun”).
Per ribadire il concetto il trio si permette anche delle divagazioni country alla
Mumford & Sons (comunque non del tutto inedite nel loro recente catalogo), come nell’ibrido folk-dance di “Lovelife”, nella desolata serenata western di “Flaws” e nella
harrisoniana “Amazing”. Niente più allegri riempipista, starete pensando, ma quando si è la più famosa e redditizia
band del Regno Unito, il cerchiobottismo è inevitabile ed ecco quindi i tre afferrare per la coda il revival funky-disco nel singolo di lancio, l’irresistibile “These Days”, e nella più sbracata “I Like It”.
Oltre a non suonare stranamente troppo fuori posto nell’album sono anche i due momenti in cui i Take That sembrano trovarsi maggiormente a loro agio, così come durante l’impeccabile svolgimento melodico di “If You Want It” e nella breve numero r’n’b “Give You My Love”, il brano più
teen mai realizzato sin dal loro primo scioglimento e che sembra quasi finito a caso in scaletta, forse per ricordarci cos’erano un tempo e come sono ora diventati.
E’ vero, i Take That sono cresciuti, hanno proseguito su un campo spinosissimo e guadagnato una credibilità che durante gli anni 90, nonostante l’enorme successo, i premi e la candidatura al Mercury Prize, sembrava inimmaginabile e immeritata, ma proprio per questo non è più tempo di sconti e trattamenti coi guanti.
Se sono lodevoli la volontà di un’ennesima trasformazione e la capacità di adattarsi ai nuovi trend, non tutto stavolta funziona a dovere nonostante l’orecchiabilità di fondo e la cura sonora, il risultato non sempre eguaglia le intenzioni e la furbizia che sta dietro le scelte di questo “III” sembra essere molto più a fuoco di tante sue canzoni.
01/12/2014