Ancora un volta per i Tinariwen il deserto diventa luogo di elaborazione della loro musica; stavolta si passa da quello algerino a quello del Mojave (California), ma nonostante l’imponenza del Joshua Tree, la struggente malinconia e il tono rivoluzionario della loro proposta non mostrano cedimenti.
L’esilio è il prezzo troppo alto che la band sta ancora pagando per la sua libertà: le devastazioni che feriscono la loro terra sono sempre l’elemento cardine della loro meditazione sonora, ma non c’è nessun segno di rinuncia alla loro identità in “Emmaar”, nonostante la solidarietà e la presenza di alcuni musicisti americani (Josh Klinghoffer dei Red Hot Chili Peppers e, Matt Sweeney dei Chavez, il rapper Saul Williams e il multistrumentista Fats Kaplin).
Il tono più cupo e introspettivo dell’album risente della più intensa e sofferta descrizione della malsana politica, i Tinariwen si rivolgono con maggior decisione alla loro gente per svegliare le coscienze e indirizzarle verso una rivoluzione non violenta. Non è un caso che il brano d’apertura sia il più robusto e incisivo. Le chitarre si infiammano, ma il messaggio è privo di violenza: "qualsiasi pace ispirata dalla forza è destinata a fallire" cantano i Tinariwen, ed è un unico flusso di musica ossessiva e testi rabbiosi quello che si agita in “Emmaar”.
Meno leggiadro di “Tassili”, il sesto capitolo della band di Eyadou Ag Leche e Ibrahim Ag Alhabib appare a tratti più indolente e meno ispirato, ma un ascolto meno fugace e distratto mette in evidenza una complessa e articolata varietà. Ci sono episodi di inaspettato ottimismo (“Emajer”) e guizzi creativi di rara bellezza (“Imdiwanin Ahi Tifhamam”), nonché eleganti e suggestivi desert-blues (“Arhegh Danagh”) e struggenti poesie dal fascino universale (“Imidiwan Ahi Sigdim”).
Senza alcun dubbio la musica dei Tinariwen rischia di perder fascino per chi è assetato di novità e rivoluzioni stilistiche e, in converso, chi ama l’integrità culturale non potrà che gioire della costante bellezza della loro musica. È in realtà impossibile resistere al vibrare delle corde della travolgente “Koud Edhaz Emin” o alla soavità acustica di “Aghregh Medin (Hassan’s Song)”, e se c’è una vera novità nella musica dei Tinariwen è che mai è stata osservata nella loro discografia una coralità creativa e musicale così coesa e solida come in “Emmaar”. L’amalgama sonoro delle quattro chitarre è straordinario, è come sentire un supergruppo formato da Ry Cooder, Santana, Led Zeppelin e Red Hot Chili Peppers.
Quello che continua a diversificare la loro produzione è quella sapiente commistione di tradizione e modernità, che la band continua a fagocitare dalle varie culture che incrocia, senza mai perdere identità e stile, ed è un prodigio che si rinnova ad ogni album.
15/02/2014