Amycanbe

Wolf

2015 (Open Productions)
alt-pop, dream-pop

Originari di Cervia, Marco Trinchillo e Mattia Mercuriali fondano Amycanbe nel 2002 e successivamente espandono il progetto a vero complesso con l’aggiunta di Paolo Gradari e Francesca Amati dei Comaneci. Il primo demo “Yellow Suit” (2006) e il primo disco lungo “Being A Grown-Up Sure Is Complicated” (2007) si iscrivono alla perfezione nel pop glicemico di metà anni 2000 di Bird And The Bee, Regina Spektor, Feist, Rosie Thomas etc. A differenza di questi, non hanno né le competenze melodiche né particolari doti di arrangiamento: una pura imitazione, se possibile anche più ostentata dei “maestri” internazionali, di questa sdolcinatezza innocente.

L’Ep “The World Is Round” (2011), un concept basato sull’omonima fiaba di Gertrude Stein, saluta l’avvento dell’elettronica per scolpire litanie e rosari dolciastri e poi grandiosi (“Rose Is A Rose”, “Blue Mountain”), e finalmente un trip-hop d’assalto come “Everywhere”.
Il secondo album “Mountain Whales” (2011) mette già da parte l’elettronica per darsi alle ballate pop, “What If”, “Truth Be Told”, “Andy’s Shoes”, che spesso hanno la monotonia del sound commerciale, pur con l’ottimo lavoro di produzione esemplificato dalla coda rococò di “Different”.

Il terzo “Wolf”, in buona sostanza il parto del nuovo produttore Mattia Dallara, ci ripensa un’altra volta, recupera nuovamente l’elettronica ed esplora lo stereotipo del glitch-pop di casa Morr (Lali Puna e affini). Il piattume però è eluso da trip-hop vitrei e celestiali come “Grano”, da soul rarefatti in vago stile Lana Del Rey come “I Pay”, una delle poche della loro carriera a cavare sentimento dalla cantante, e dai vagiti sinfonici di sottofondo in “Fighting”, tutte debitrici, a scelta, delle sbandate elettroniche di Suzanne Vega, dei Lamb più atmosferici, o, più appropriatamente, del periodo Beck di Charlotte Gainsbourg.

I momenti in cui il produttore si fa da parte sono però anche più funzionali, come nella ballatona “Wherefrom”, ancora reminiscente del disco predecessore (ma con un finale marziale), e soprattutto in una “Queens” che cerca di andare leggermente oltre i loro standard, in una lounge fantasma alla Cowboy Junkies, a velocità doppia. Chiudono coerentemente i 7 minuti di “Orata”, una formulaica cavatina di post-rock strumentale.

A mani basse, la loro opera migliore. Di certo è quella più nutrita di ambizione, tecnologia e passione. Ci sono però, ed era inevitabile, pesanti contrappassi. Molte, troppe canzoni faticano ad affondare il colpo, perse in classiche ballate per pianoforte remixate con fare smodatamente sofisticato, sovrarrangiato. Persino supponenti sono i bisbigli di Amati: vorrebbero cavare arte dalla sofficità ma, almeno per chi non è avvezzo al canto afono, provocano sonno se non anafilassi. Polso freddino.

08/05/2015

Tracklist

  1. Grano
  2. I Pay
  3. Wherefrom
  4. Fighting
  5. 5 Is The Number
  6. Wolves
  7. White Slide
  8. Bring Back The Grace
  9. Febbraio
  10. Queens
  11. Orata

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