Bjork

Vulnicura

2015 (One Little Indian)
songwriter, electro, chamber-rock

Per “Vulnicura”, il nono album lungo (il più lungo: un’ora spaccata), Bjork mette da parte le autocostruzioni ipertecnologiche di “Biophilia” e riprende appieno il modus operandi di circondarsi di produttori di grido, vale a dire Alejandro “Arca” Ghersi, qui vero e proprio assistente in buona parte dei pezzi, e Bobby “Haxan Cloak” Krlic all’ingegneristica.
E’, sulla carta, il suo parto più ambizioso e monumentale, ma una definizione più calibrata è quella di una grande, tronfia appendice della sua carriera, e forse anche di una lussuosa raccolta di riempitivi.

Anche la promozione è mastodontica. Il problema è che lo strombazzato hype, costruito appunto sui produttori elettronici, è quasi pubblicità ingannevole: il disco è caricato di archi e la dimensione puramente elettronica è sovente piuttosto trattenuta (e talvolta anche triviale).
Tra tutta la pompa contenuta nell’album, solo “Stonemilker” e “Lionsong” ricordano che Bjork è prima di tutto una scrittrice di melodie che trova la sua origine con i Sugarcubes, e non solo la presunta e presuntuosa artista autoincoronatasi “totale”, rifinita e sofisticata progetto dopo progetto. In generale “Vulnicura” tralascia la spettrale lounge del predecessore e riporta ai suoi periodi di grandeur, dallo struggimento di “Homogenic” al musical di “Selmasongs”, fino allo pseudo-massimalismo di “Volta” (un nuovo duetto con Antony lo testimonia).

“Stonemilker” è una romanza da camera con battiti sfumati (e un sovratono di hi-hat industriale preso - inconsciamente? - da “I Got A Gun” di Jarboe), e soprattutto il brano che, dopo anni di sperimentazioni vocali ed elettroniche, riesce a tornare genuinamente alla forma-canzone. La coda di soli archi suona come una rifinitura barocca e vi aggiunge una certa solennità. Già la successiva “Lionsong” inizia a suonare superflua, replicando “Stonemilker” con una componente musical più accentuata, ma pure incaricandosi di mostrare un’altra componente dell’opera: la selva di gorgheggi e archi ondeggianti e battiti elettronici in cui si sperde la linea canora.

I dieci minuti di “Black Lake” potrebbero suonare come un album nell’album (dove questi due album però sono identici), in realtà allungano la minestra di “Stonemilker” e “Lionsong”, pure esponendo attimi di rarefatta pittura sonora che non ci si aspetta da un album di Bjork. E’ però una pièce che suona come una lunga pausa e che difetta di una giusta dose di dramma (in primis proprio dalla cantante stessa).
Fa meglio “Family” (8 minuti), o almeno la sua prima parte, forse l’unico momento di reale espressionismo da camera dell’album, inscenato da archi dronanti nel buio e tremebondi, funebri battiti techno oltremodo rarefatti e irregolari. Nella seconda parte si liofilizza in un adagio etereo senza particolare connotazione, che - nonostante tutte le tecniche strumentali e sonore impiegate - fa semplicemente da sfumatura finale. La curiosa taranta medievale di “Notget”, dapprima dipinta dai distorsori elettronici e poi mimata dagli archi, per quanto confusa, ruba di netto la scena al canto non certo pimpante della performer. Anche in questo caso i momenti di genuina non-musica dissonante sono pochi (e arrivano quando gli archi tacciono).

Il balletto per pizzicati di “Atom Dance”, 8 minuti spartiti tra la cantante e un Antony a tratti alieno, è una vanesia galleria di figure d’archi, vocalizzi e decorazioni elettroniche, un tipico esempio d’ipersaturazione che dimentica di veicolare reali significati. Lo stesso vale per la neoclassica “Mouth Mantra”, a tratti smarrita e cupa quanto un’aria d’opera elisabettiana, un casuale gioco delle variazioni che potrebbe continuare all’infinito rimanendo sempre al blocco di partenza.
La breve “Quicksand”, con i suoi soli tre minuti, ha più vitalità delle altre messe assieme, almeno nell’iperdinamismo jungle - merito più di John “Spaces” Flynn che di Arca - e nel contrappunto ansiogeno dei violini. L’unico episodio solamente elettronico, l’altrettanto breve “History Of Touches” tutto toni celestiali, è il più essenziale e affocato requiem per la fine della sua relazione con Matthew Barney.

Più di tutto, comunque, è un album segnato dalla mancanza di equilibrio, quell’equilibrio che aveva forse a inizio carriera e che è andato digradando di album in album: “Biophilia” suonava poco musicale per difetto, “Vulnicura” suona poco musicale per eccesso. Doveva essere un’opera di confronto con sé stessa, e in effetti ci sono momenti in cui finalmente evoca l’immagine di donna matura che smette di giocare all’elfo e affronta i suoi spettri reali. E’ però sempre l’ennesima autocelebrazione, una delle sue più impressionanti per respiro e impianto, confezione e regia. Uscita digitale due mesi prima del previsto a causa di un leak molesto. Seguito da "Vulnicura Strings" (2015), la sua versione acustica. Edito in Italia da Carosello Records.

27/01/2015

Tracklist

  1. Stonemilker
  2. Lionsong
  3. History Of Touches
  4. Black Lake
  5. Family
  6. Notget
  7. Atom Dance
  8. Mouth Mantra
  9. Quicksand 

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