Non dev’essere stato facile per Ben Gibbard e soci rimettersi al lavoro dopo che “Codes And Keys” aveva rappresentato il primo vero passo falso di una carriera lunga e piena di soddisfazioni, anche per il fatto di sapere che lo storico chitarrista e produttore della band Chris Walla se ne sarebbe andato al termine della realizzazione del disco. Ciononostante, questo “Kintsugi” segna un miglioramento rispetto all’album precedente, anche se ancora non siamo ai livelli che competerebbero ai Death Cab, visto il loro pedigree.
In “Codes And Keys” si notava un suono eccessivamente patinato, ma in realtà i maggiori problemi non erano legati a quell’aspetto in sé. Convincevano, infatti, ancor meno sia una vena melodica decisamente appannata, sia, in sede di produzione, l’utilizzo di espedienti non centrati né funzionali alla resa dei brani. Qui, invece, il suono è ancora un po’ troppo levigato, ma le due criticità di cui sopra non ci sono. Le melodie sono tutte buone o abbastanza buone e le scelte in fase di arrangiamenti sono meno ambiziose ma decisamente più azzeccate. Si punta semplicemente su arpeggi di chitarra che non vadano in sincrono con l’andamento della melodia ma con l’interazione tra i due elementi ben inquadrata dentro una struttura, oppure sui riverberi della chitarra stessa (la seconda strofa di “Little Wanderer”), o ancora sulla sua sparizione (“The Ghost Of Beverly Drive”, sempre la seconda strofa), o su un accompagnamento in crescendo costante (“You’ve Haunted Me All Your Life”), o ancora quasi impercettibile ma in grado di dare colore (“Hold No Guns”); nella conclusiva “Binary Sea”, appare anche il pianoforte. In tutto questo è giusto citare l’iniziale “No Room In Frame” come miglior brano del lotto, grazie a una melodia particolarmente ispirata e a una spiccata vitalità.
Di contro, alcuni difetti fanno sì che il disco non decolli davvero come potrebbe. Le canzoni non escono praticamente mai dalla rigida alternanza strofa–ritornello; c’è un’eccessiva insistenza nel ricercare a tutti i costi un’atmosfera nostalgica con una patina di negatività e in alcuni casi si ha l’impressione che sia stata forzata un po’ troppo la mano per seguire questo intendimento; il timbro vocale di Gibbard ha ormai definitivamente perso l’antico mordente e il cantato è inespressivo ai limiti del monocorde.
Nel bilancio di luci e ombre, il disco si lascia ascoltare e tra il vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, propendiamo per la prima ipotesi, considerati soprattutto i miglioramenti rispetto al disco precedente. Certo, adesso è difficile aspettarsi ancora grandi guizzi dai Death Cab, ma almeno con questo disco sappiamo di non averli persi del tutto.
11/06/2015