Produttore newyorkese, vincitore di un Grammy per il suo contributo all’album “Recovery” di Eminem, collaboratore di Ghostface Killah, The Roots, Ice Cube, Slaughterhouse, Kanye West, Emile Sandé e Bruno Mars, nonché deus ex machina di “Born To Die” (Lana Del Rey), Emile Haynie scende in campo con un album a suo nome.
“We Fall” offre più di una sorpresa grazie a una lista di ospiti di elevato prestigio (da Brian Wilson a Julia Holter), che per una volta non fungono da comparse per nascondere un’eventuale mancanza di idee.
Il suo hip-hop in slow-motion, avvolto in una grandeur orchestrale, è ormai un marchio di fabbrica riconoscibile, ma la sorpresa è che Emile Haynie si scopre anche vocalist con due buone performance, prima nel soul teatrale-orchestrale di “Dirty World” e poi nel finale quasi psichedelico di “The Other Side”, che a molti richiamerà alla mente alcune pagine degli Spiritualized.
Pop all’ennesima potenza, senza se e senza ma, dove la coesione sonora non è ottenuta livellando le diverse anime, il tutto gratificato dalla presenza di almeno un paio di potenziali hit-single.
Emile Haynie mette in gioco le sue ambizioni di produttore, cercando di concentrare nelle undici canzoni la sua venerazione per il passato o per album come "Pet Sounds" e "Song Of Experience", caratterizzando ogni brano senza invadere o vincolare il cantante di turno: Rufus Wainwright sembra divertirsi molto in "Little Ballerina” e Father John Misty e Julia Holter convincono nella spettrale e inquieta “Ballerina’s Reprise”.
Ci pensa Nate Ruess a iniettare simpatia e una buona dose di energia nell’accattivante marcia hip-hop di “Fool Me Too”, mentre Brian Wilson è a suo agio nel chamber-pop-soul di “Falling Apart”, che rilegge con classe la tradizione del pop americano.
Che Emile Haynie faccia sul serio lo dimostra anche la sensuale “Wait For Life”, che non è un maldestro tentativo di sfruttare l’amicizia con Lana Del Rey, ma un’esemplare dimostrazione del genio produttivo dell’autore, che rinnova il fascino da crooner-maudit che animava “Born To Die”.
Non venitemi a dire che avevate sentito un Randy Newman così brillante e graffiante nell’ultimo decennio come quello di “Who To Blame”, con piano e tuba che si trastullano con il blues di New Orleans, o che il risultato dell’incontro tra Charlotte Gainsbourg, Sampha e Dev Hynes in “A Kiss Goodbye” potesse sulla carta essere così promettente: un sofferto soul che resta sospeso tra lo spazio e l’inferno.
Il limite intrinseco di un album come “We Fall” è quello di un'eccessiva dispersione qualitativa dei brani, la struttura di simil-compilation mette in evidenza più i difetti che i pregi, ma è come affondare le mani in una cesta di un mercatino delle pulci: state pur certi che porterete a casa almeno un paio di cose graziose, forse preziose. La musica pop è legata al piacere a volte effimero delle sue suggestioni, e in “We Fall” c’è molto con cui dilettarsi.
06/05/2015