Fuzz

II

2015 (In The Red)
psych-rock

Per la serie “Ty Segall, eroe moderno”, trasmettiamo ora la tremillesima puntata, dal titolo “E’ sempre l’ora dei Fuzz!”.
Vediamo di tirare le fila. Nei due anni trascorsi dall’uscita del primo capitolo con quella ragione sociale, il reuccio californiano ha licenziato il suo album in assoluto più fortunato (non il migliore), “Manipulator”, per poi fondare l’ennesimo progetto collaterale assieme all’inseparabile Charles Moothart (GØGGS, il cui debutto sulla lunga distanza è atteso nel 2016, ospiti Cory Hanson dei Wand e Mikal Cronin) mentre Roland Cosio ha fatto i bagagli e si è aggregato , non si sa se per restarvi, ai Together Pangea. La casella del bassista lasciata vacante da quest’ultimo è stata comunque occupata in un attimo da un altro pregiato alfiere della medesima compagnia di giro, quel Chad Ubovich che ha nel frattempo varato con un notevole esordio eponimo l’avventura dei Meatbodies. Nemmeno il tempo di registrare l’avvicendamento, che il motore è ripartito più rombante che mai.

Per quanto si ostini a giocare la sua partita in zona Black Sabbath/Hawkwind/Grateful Dead, sin dalla partenza la band appare più scattante di come la ricordavamo, ben oliati gli automatismi, apprezzabili i cambi di passo, più agile il risultato, al netto della solita propensione elefantiaca al revisionismo rock psichedelico. Riesumato lo stato brado dell’estemporanea Ty Segall Band, a impressionare è in particolare il reattore ritmico del terzetto, mentre i bramiti elettrici proliferano ottimi e abbondanti e Ty recita la sua parte con la consueta, felice aderenza al personaggio. La tonicità muscolare resta rimarchevole, persino potenziata, le chitarre si mantengono rigonfie, e pare salutare che ogni tanto il microfono passi di mano, ora a un Moothart osbourniano (“Rat Race”, acida e smargiassa quanto basta) ora a Ubovich (“Pipe”, col pilota automatico a dirla tutta).

Trucidi e se possibile più lerci della loro norma, i Fuzz testimoniano la maggior cattiveria del progetto in questo suo secondo e ben più aspro passaggio. Pregevole, ad esempio, “Pollinate”, davvero pungente ma con momenti quasi estatici affogati nel marasma, come pure l’intonazione malata, ammorbata quasi (quando non schizoide) che affiora in “Bringer Of Light”, uno dei numeri più teatralizzati del lotto. Per non tacere di come le cantilene da sciroccati di “Burning Wreath” mandino al massacro la loro aura dolciastra, costretta a infrangersi contro le alte onde della muraglia di granito.

Tra le gemme, “Let It Live” può vantare una linea di basso e un refrain assassini, dando forma a un hard-rock al grado zero che promette di conficcarsi nel cranio dell’ascoltatore e di non abbandonarlo per lungo tempo. Ty conduce il suo smaccato populismo e la sua vocetta ruffiana anche in questi lidi, e la resa non può che essere senza condizioni. Con i suoi oscuri presagi, “Say Hello” rilascia invece vaghe suggestioni morrisoniane, prima di essere tuffata in una paradigmatica guazza segalliana. Enfatica, crudele e inesorabile come da copione, merita di essere ascritta tra le pagine memorabili del disco. Lato produzione, i Nostri scelgono di rinunciare all’oracolare Chris Woodhouse e di arrangiarsi da soli, sebbene questo non precluda loro di mostrarsi massicci e spurganti secondo necessità, avvicinando nelle battute conclusive i più celebri affiliati al guru di Sacramento, detonanti (“Sleestak”) e visionari (“II”) come in “Carrion Crawler / The Dream” o barocchi e sfuggenti come nelle opere più recenti, archi inclusi (“Silent Sits The Dust Bowl”).

Per quanto sia coscienziosa la politica dei tagli ai minutaggi per singola unità, il numero quasi doppio delle tracce vanifica di fatto i benefici di un simile snellimento, portando il disco a quasi un’ora e dieci di lunghezza e allo statuto di doppia raccolta. Il punk scapestrato e marcissimo di “Red Flag” rende bene l’idea di come le cadenze si siano nel frattempo fatte assai più sostenute, anche se questo non può che essere menzionato tra i casi estremi, agli antipodi rispetto alla più canonica e guizzante prospettiva garage di “New Flesh”. Nonostante la maggior varietà, è quasi fisiologica la tendenza alla ripetizione delle formule, in una seconda parte per forza di cose meno convincente. Che si tratti di musica suonata per sincera passione, ad ogni modo, non si può negare. Come (quasi) sempre quando si parla di Ty Segall, il lavoro si conferma godibile nella sua interezza e al tempo stesso prescindibile.
E ora sotto con il prossimo episodio…

17/12/2015

Tracklist

  1. Time Collapse pt. II / The 7th Terror
  2. Rat Race
  3. Let It Live
  4. Pollinate
  5. Bringer Of Light
  6. Pipe
  7. Say Hello
  8. Burning Wreath
  9. Red Flag
  10. Jack The Maggot
  11. New Flesh
  12. Sleestak
  13. Silent Sits The Dust Bowl
  14. II