La parola eleganza potrebbe essere eretta a chiave di lettura principale e fondamentale dell'opera di SaffronKeira. Una dote innata, un tratto somatico, e contemporaneamente un obiettivo perseguito con minuzia nel contesto di una ricerca estetica che ha sempre succeduto l'elaborazione di una sostanza massiccia. Potremmo immaginare Eugenio Carìa come uno scultore del suono e interpretare facilmente il suo metodo come un procedere per accumulazione (di spunti, idee, ipotesi) prima e per sottrazione (“levigazione” estetica) subito dopo. Un approccio al tempo stesso rigoroso e spontaneo, impostato su binari ben definiti ma le cui direzioni sono strutturalmente molteplici.
Se il passato techno era emerso nel retroterra del folgorante debutto “A New Life”, salvo poi far posto a un formalismo esasperato nel successivo “Tourette”, in questo “Synecdoche” l'attitudine si ripresenta, risemantizzata in un contesto che ha però ben poco a che vedere con la cassa e il 4/4. Carìa firma il suo album più “aperto” e poliglotta, sperimentando una miriade di soluzioni tenute nel cassetto a maturare. Il suo lavoro più corale, a partire dalla scelta di ospitare in quasi tutti i brani (due su nove le eccezioni) un diverso collaboratore, ciascuno affine per determinate caratteristiche all'estetica griffata SaffronKeira ma al tempo stesso lontano il giusto a livello di sonorità.
Il trip-hop di “Greguería”, realizzato con Siavash Amini e Idlefon in apertura, è una liturgia asciugata di ogni componente sacrale e riconvertita in gioiello oscuro. Un'introduzione di lusso che trova continuità in primis nei due parti sfornati assieme al camaleontico Witxes, qui nella versione Roly Porter apprezzata già sullo split con i Dale Cooper Quartet. “Aforisma” è un'immersione degna del miglior Steve Roach, fra armonie immagnifiche, ricami d'archi e lievi bagliori sintetici, mentre l'adagio cosmico di “Epifonema” tiene insieme magistralmente calore etno-spirituale via raga arpeggiati e frammenti glitch presi a prestito direttamente dal catalogo raster-noton.
Il link ben presente con un'idea di ambient music vicina alla tradizione californiana è nuovamente messo in luce nel mantra rituale condiviso con Subheim di “Paradigmatic”, dominato dal ritmo ancestrale delle percussioni. Un'enfasi apocalittica pervade invece i due episodi più epici: l'adagio sinistro di “Ouevre”, con Sebastian Plano impegnato a generare disarmonie al violoncello, e la solenne “Syntagmatic” con Field Rotation, potenziale outtake da una colonna sonora di Jóhann Jóhannsson. Fa storia a sé, invece, “Chthonian”, autentica deviazione nel terreno "inventato" dai Second Moon Of Winter fra scheletri elettronici glaciali e la rovente narrazione lirica di Mia Zabelka.
Capitolo a parte lo meritano anche i due passaggi firmati in solitaria da Carìa, decisamente più disturbati e inquieti: nella spettrale “Metonymy” dense nebulose e cori detonati si inerpicano per il sentiero tracciato da un pianoforte martellante, mentre il finale di “Memory Of Noone” parte funereo per poi dischiudere la sua componente più intima fra i docili arpeggi della chitarra elettrica. Un finale che conclude quasi sottovoce un'opera dal fascino formidabile, in grado di far convivere sobrietà estetica e formale con una sostanza pregna di epos, dalle tinte accese e marcatamente espressioniste – come pure suggerito dalle figure retoriche dei titoli.
Il disco della maturità per SaffronKeira, della consacrazione per Caría. Di nuovo molto di più della "semplice" eleganza.
02/01/2016