Dopo un paio di Ep e una fama crescente nell’ambito della scena hardcore australiana, gli Statues tagliano il traguardo del primo disco sulla lunga distanza con un lavoro che, fin dall’immagine di copertina, lascia prefigurare una rabbia e una frustrazione incontenibili, qui espressi attraverso un poderoso connubio di Dillinger Escape Plan e Rage Against The Machine. Insomma, vertiginose muraglie di riff corrosivi, stacchi al cardiopalma e groove febbrili che hanno nell’indiavolata voce di Jayme Van Keulen, nelle chitarre dinamitarde della coppia Scott Kay/John Overthrow e nella versatile batteria di Daniel Harper i centri propulsori.
Eppure, al centro dell’opera, a spezzare in due un monolite di efferatezza e visceralità, c’è il gospel a cappella di “I Want Peace”, un’oasi di quiete attorno cui si agitano tempeste spaventose, passioni ruvide e convulsioni anthemiche che si aprono la strada a colpi di piccone tra le trame progressive di “Always Building, Always Breaking”, producendosi in epilessi fuori controllo (“Forseeing The Cloud And Not The Rain”), fiammate screamo (“Oh Precious Commodity”), trame spigolose che sanno di funk (“Affliction Prescription”) e numeri che in nemmeno tre minuti riescono a dare conto di un’ispirazione da non sottovalutare, capace di spaziare tra scambi velocissimi che assomigliano a mitragliate, micro-apoteosi e corto circuiti elettrici (“Burning The Truth At Both Ends”).
Dopo l’ennesima tortura sonora, dopo l’ennesimo scempio di tutte le speranze di questo mondo (le urla… ascoltate quelle urla!), “The Wanderer” scivola lentamente nel baratro con tentacoli doom, mentre, di lì a poco, “Hard Words, Softly Spoken” tocca vette di solennità emo, spingendo forte sul pedale dell’estasi liberatoria. Lo strumenale bluesy di “Hope Is” lascia prendere l’ultimo respiro prima della conclusiva e straziante “Within Arm's Reach”, in cui le ultime parole di Van Keulen fanno intravedere qualche spiraglio di luce: “Maybe home’s not as far as we thought”.
Una band da tenere d’occhio!
03/02/2015