Steve Hackett

Wolflight

2015 (InsideOut)
ethno-prog
6.5

Ultimamente Steve Hackett ci ha abituato bene. Forse troppo bene. In quel “ci”, va da sé e non ci stancheremo mai di dirlo, rientra una categoria decisamente ristretta di ascoltatori. Ovvero quelli che, spinti dalla curiosità, dalla fedeltà e lontani dalla pregiudiziale del “nulla di nuovo da dire”, hanno seguito in tutto o in parte il lungo percorso solista di quello che resta, per molti, solo “l'ex-chitarrista dei Genesis”. Hackett li ha ricompensati, dopo un decennio 80 decisamente sotto tono, con una sfilza di dischi in cui ha evoluto costantemente una sua personalissima visione del prog, in dialogo diretto con le tradizioni etniche più disparate, e con almeno un capolavoro tra l'altro piuttosto recente (“Out Of The Tunnel's Mouth", datato 2009).

Proprio questa contaminazione ethno, col tempo ripulita da certi sperimentalismi che l'avevano caratterizzata alla nascita, ha trovato nell'ultimo “Beyond The Shrouded Horizon” un punto di massimo equilibrio. Sulle spalle di “Wolflight” - come a ogni disco di Hackett da “Darktown” in su – pesa dunque un'eredità ingente, fatta appunto di eccellenze e successi precedenti. Un facile elemento di influenza nel giudizio da parte di chi, come il sottoscritto, della poetica ethno-prog del chitarrista si è innamorato forse anche più che dei Genesis. La cattiva notizia, piuttosto prevedibile, è che stavolta Hackett dall'eccellenza resta lontano e parecchio. La stanca sulle canzoni e sulla formula, dopo anni di potenza, inizia a sentirsi, assieme a un rientro (fino ad oggi evitato come la peste al di fuori dei “Revisited”) in binari di autentico stampo genesisiano (si veda la ballata “Loving Sea”, che potrebbe essere un b-side di “A Trick Of The Tail”).

Quella buona, però, è che Hackett si conferma qui maestro nell'evocare atmosfere e nel miscelare melodie e armonie tali da rendere i suoi pezzi ben più che gradevoli. Questo nonostante la falsa partenza di “Out Of The Body”, tremendamente simile nello schema alla “Loch Lomond” di quattro anni fa, ma priva dello stesso mordente e decisamente insipida.
Le due suite successive sono invece il bollettino medico più esplicativo dello stato di salute di Hackett: i dieci minuti di cori bianchi, arpeggi gitani e assoli di “Love Song To A Vampire” lasciano il segno a fatica, ma affascinano come da copione per perfezione tecnica e capacità evocativa. Meglio ancora va nell'altrettanto lunga title track, altra cavalcata a singhiozzo (uno schema decisamente abusato stavolta) fra squarci di sereno per acustica e voce e nuvole in corsa al ritmo di batteria e assoli di elettrica.
Su questo modello si articola anche l'evanescente passaggio noir di “Black Thunder”, con il basso di Nick Beggs più in vista che mai, e da questi stessi lidi verso territori arabeggianti muove “Coricyan Fire”, marcia tinta di nero e nel complesso forse episodio più riuscito dell'intera scaletta. Lo strumentale “Dust And Dreams”, partito bene in tempo dispari, si perde invece soffocato dagli assoli, protagonisti unici anche del finale di “Heart Song” (quasi un tentativo di bissare “Spectral Mornings” con la voce di Amanda Lehmann a cullare in un sogno). Proprio il costante ricorso a questi ultimi (da sempre, ovviamente, elementi chiave nella miscela dell'Hackett solista) è sintomatico di un protagonismo strumentale per la prima volta davvero eccessivo, che tende a limitare l'apporto della band chiamata in supporto (la stessa di “Out Of The Tunnel's Mouth”).

L'elemento sinfonico-cinematografico torna qui a occupare un ruolo centrale nella poetica di Hackett, come ai tempi dell'imperfetto “Wild Orchids”. Dimostrazione ne è la mutevole (quanto totalmente inefficace) “The Wheel's Turning”, la cui sezione più hard costituisce un altro tuffo nel passato, che stavolta guarda a certi tentativi (mai riusciti) nei lavori a cavallo fra i due millenni. Con questi, “Wolflight” condivide la frammentazione, perdendo quella compattezza sonoro-stilistica che aveva reso gloriosi i suoi predecessori. Vedere quest'ultima come conseguenza di un ritrovato (mai smarrito) istrionismo sarebbe però fuorviante. Più sincero ammettere che si tratti, con tutta probabilità, di una reazione istintiva alla (comprensibile) perdita di smalto di un songwriting spremuto al massimo da dieci anni a questa parte.

Niente che impedisca a “Wolflight” di essere (nulla più) di un gradevole amarcord, ovvero ciò che chiunque non lo abbia seguito da solista si aspetterebbe da un qualsiasi sessantenne che la storia l'ha scritta quarant'anni fa. Un nostalgico connubio tra il glorioso passato seventies e quell'Hackett-sound evoluto con perizia in anni di incessante ricerca stilistica. Non privo di sprazzi di quel fascino e di quella poetica che hanno reso il cammino solista di Steve Hackett una splendida avventura nota a (troppo) pochi.

16/05/2015

Tracklist

  1. Out Of The Body
  2. Wolflight
  3. Love Song To A Vampire
  4. The Wheel's Turning
  5. Coricyan Fire
  6. Earthshine
  7. Loving Sea
  8. Black Thunder
  9. Dust And Dreams
  10. Heart Song

Steve Hackett sul web