Tra i pochi superstiti “veri” degli anni d’oro del folk-pop britannico, quello che ha poi partorito star internazionali come Mumford & Sons e Laura Marling e forse un po’ orientato parte del pop mainstream verso i propri stilemi acustici, gli Stornoway hanno seguito un percorso del tutto autarchico, dopo il successo di “Beachcomber’s Windosill”, senza cedere all’anima più diretta e orecchiabile dei pezzi di quel disco – anzi cercando di trovare una strada personale e matura nel secondo, meno ispirato “Tales From Terra Firma”.
Questo “Bonxie” li trovava insomma a metà del guado, tra un declino, uno spegnimento della propria proposta, un po’ come per i Leisure Society, ma con un passato ben più flebile, e la possibilità di rilanciarsi in grande stile, come il Conor O’Brien di quest’anno. L’esuberanza melodica e strumentale di questo terzo disco non lascia dubbi: si tratta del secondo caso.
“We Were Giants” è la canzone romantica, malinconica ed esistenziale che Nick Hemming non sa più scrivere; “The Road You Didn’t Take” è quella interpretazione della “tradizione” folk che Laura Marling vorrebbe scrivere, ma non può; “Get Low” è il capolavoro in forma Bee Gees, con sbarazzino e stonato accompagnamento sintetico, che forse Brian Briggs non aveva finora avuto il coraggio di scrivere.
“Bonxie” è di gran lunga il disco più solido della band, rispetto anche all’esordio, che aveva alcuni pezzi superlativi e altri decisamente di contorno: la cura e la freschezza negli arrangiamenti, il tiro dei pezzi rende questo disco decisamente l’”Into The Murky Water” degli Stornoway (il twee-pop di “When You’re Feeling Gentle”).
La scrittura di Briggs sembra costantemente involarsi per farsi inno, pur mantenendo intatta l’anima infantile e immacolata del “piccolo principe” inglese (“Lost Youth”, il finale alla Manic Street Preachers di “Sing With Our Senses”): il saluto finale di “Love Song Of The Beta Male” è davvero una delle cose che non vi dimenticherete di quest’anno in musica.
24/04/2015