Troum & Raison D'Ętre

De Aeris In Sublunaria Influxu

2015 (Essence)
ambient-drone, dark-ambient

Meditazioni fisico-chimiche. Questo il sottotitolo che “De Aeris In Sublunaria Influxu” porta con sé, in un contrasto cercato e voluto con il suo titolo in latino e la sua fascinazione antica, arcana, maestosa. Questa e molte altre le chiavi attraverso le quali si potrebbe leggere il disco che sancisce l'atteso incontro tra Stefan Knappe, Martin Gitschel e Peter Andersson. Vale a dire tre dei più abili e insuperati sacerdoti che hanno fatto della musica atmosferica un gergo liturgico, fra i primi, nel bivio tra suburbanesimo ed esoterismo del dopo-industrial, ad aver mosso in direzione del secondo da due prospettive complementari. Elaborando due diverse ipotesi di ambient music dove nell'ambiente convivano, coappartenendosi, propensione sacra e fascinazione (post-)industriale.

Da un lato il fascino del contrasto fra sacralità pagana (interiore) e decadenza empirica (esteriore), comun denominatore delle narrazioni che Andersson ha reiterato alla continua ricerca, nel rapporto fra di esse, di una Raison D'Être (come recita il nome stesso del suo progetto). Dall'altro le ceneri della NDPA, abbandonata la provocazione dadaista, all'inseguimento di un gergo (scientificamente studiato) che appartenesse sì allo spazio esteriore e allo spirito della Germania riunificata, ma che raccogliesse in sé anche il retroterra umano dei suoi ideatori, fatto di sensazioni, immagini, suggestioni e impressioni. Fino al focus esclusivo su questi ultimi e sulla loro essenza più profonda e primordiale, riscontrabile nella dimensione del sogno. Troum, appunto.

In “De Aeris In Sublunaria Influxu” quanto detto evolve e non di poco. Per la prima volta nel percorso dei tre, il suono recita qui la parte contemporaneamente di soggetto e oggetto delle meditazioni. Le atmosfere si configurano come suoi prodotti, e non viceversa. L'impianto sacrale non è cercato né costruito in quanto fondamento dell'ambientazione: è anch'esso frutto, risultato di meditazioni in cui terreno e arcano si legano sonoramente. Il tutto per mezzo di una ricerca sulla chimica del suono e sulla sua dimensione fisica, anziché sul suono come conseguenza di un'esperienza, di un'evocazione o di un paesaggio. Paradossalmente, in questo senso, si tratta forse del disco meno sperimentale e più accessibile di entrambe le saghe.

L'intensità dei suoi sette movimenti, però, lo configura al tempo stesso come uno dei capolavori assoluti nelle reciproche discografie. E come un disco incredibilmente attuale, nel contesto di quel discorso sul sacro che Tim Hecker ha inaugurato con “Virgins” a livello sonoro-architettonico e Lawrence English ha continuato con “Wilderness Of Mirorrs” da una prospettiva più spiccatamente emotiva ed espressionista, come reazione d'impeto controllata e trasfigurata alla pochezza del materiale e del terreno. Qui invece a perdersi in primis è l'antropocentrismo, è l'esistenza vitale tutta a tornare in campo in forma di non-umano (il titolo del disco in tal senso è eloquente), e a relazionarsi attraverso il suono all'idea di sacro (ultra-terreno) e al suo arcano.

La partenza quasi sottovoce di “Folia” fa tornare in campo il mondo vegetale, forse la forma di vita meno profana e più pura, come già in Alio Die e nelle sue costruzioni spirituali e sciamaniche. Con l'umanità si perdono anche quegli standard sonori a cui gli stessi artisti avevano dedicato tempo ed entusiasmo: impressionante è in tal senso “Alio Tempore”, un'immersione di dieci minuti che spazza via ogni forma di percezione, fra muri di droni autenticamente “universali”, distorsioni caustiche e frammenti di field recordings ormai lontani, sparuti. Sua diretta evoluzione è “Flammae”, un mare magnum di reazioni sonore roventi e soffi vitali, in cui il tatto è l'unico senso in grado di unirsi all'udito nel fare esperienza del suono.

“Oculum Mundi” evoca invece in un quarto d'ora di chitarre dilatate un ipotetico scenario pre-Big Bang, benché non esista a tutti gli effetti una scansione temporale alla quale subordinare l'esperienza. Persino la parola soundscape perde qui di significato, mancando ogni possibile dimensione temporale nelle tre meraviglie che costituiscono il cuore e la non-fine del disco. Vale a dire in primo luogo il tandem di “Atmosphaera” e “Meditationum”: una sfilza di bagliori a intensità varia e ricordi stracciati e irriconoscibili (voci umane, versi di animali, soffi di vento, richiami lontani) nei sei minuti della prima. E poi una progressione monumentale di armonie e feedback nei venti minuti della seconda, semplicemente impossibili da descrivere senza farne esperienza diretta.

Subito dietro, però, c'è la chiusura di “Ad Infinitum”, in cui basterebbe il titolo a chiarire immediatamente dove il cerchio vada a (non-)chiudersi: un vortice che nuovamente esula la capacità razionale, costringendo a un ascolto totale, rientrando però paradossalmente in un sistema hegeliano, laddove l'ascoltatore non fa altro che divenire una parte (finita) necessariamente appartenente all'intero sonoro (proteso, appunto, all'infinito, pur durando il brano poco più di dieci minuti). Un'esperienza meditativa che prosegue, interiormente, come conseguenza diretta dell'ascolto, dunque del suono, della sua fisica e prima ancora della sua chimica, elementi mai come qui così totali e (multi)versali.

22/09/2015

Tracklist

  1. Folia
  2. Alio Tempore
  3. Oculum Mundi
  4. Atmosphaera
  5. Meditationum
  6. Flammae
  7. Ad Infinitum