In maniera straordinariamente provvidenziale sono venuto a conoscenza di uno splendido neologismo coniato dalla professoressa Sianne Ngai, in un saggio pubblicato all’interno della raccolta “Ugly Feelings” (Harvard University Press, 2005). Si tratta di “stuplime” – servibile anche in lingua italiana – termine di derivazione kantiana (sublime) legato alla creazione e fruizione artistica postmoderna, e che potremmo definire come uno stato di perfetta compensazione tra noia ed estasi. Esso è stato poi approfondito ed esemplificato con grande pregnanza in “Boring Formless Nonsense” di Eldritch Priest, che riporta a sua volta una testimonianza di Chedomir Barone, relativa alla lunga ed estenuante performance “Piano Installation With Derangements”:
Ero forse verso la metà del pezzo quando ho avuto una serie di rivelazioni. Per prima cosa, mi sono accorto che non stavo più controllando consciamente le mie mani, né leggendo la musica. [...] Poi mi è venuto in mente che non sapevo nemmeno “come” suonare il pianoforte. [...] Infine, ho capito che nulla aveva molto senso. Stavo colpendo una scatola di legno con le mie mani per ragioni sconosciute, e in qualche modo dei suoni si verificavano come risultato delle mie azioni. Tutto – la musica, il pianoforte, il concerto, le persone lì sedute – sembrava estraneo e ridicolo.
In questo riferimento teorico ma anche “vissuto” ho finalmente trovato uno spunto per nuove riflessioni legate a un microcosmo (anti)espressivo come quello del collettivo Wandelweiser, di cui
Michael Pisaro è tra i primi e principali rappresentanti assieme ad Antoine Beuger e Jürg Frey. Il critico-star Alex Ross li chiama “composers of quiet”, accentuando l’ascendenza
post-cageana dei loro esperimenti compositivi, indubbiamente un’eredità della scuola americana novecentesca e dei pionieri Fluxus; ma concettualmente c’è ben più di questo, e forse anche una maggior consapevolezza negli obiettivi perseguiti attraverso partiture spoglie, tanto vicine al “pensiero verticale” di
Morton Feldman quanto all’estetica
lowercase di Bernhard Günter e Steve Roden.
Ormai si dovrebbe parlare, in questi casi, di arte come
uneventfulness, condotta a passi lenti da un senso di attrazione e di assorbimento verso il nulla. Non più, quindi, un anelito alla massima inclusione della realtà nell’universo musicale, e viceversa, ma la creazione di un piano parallelo in cui il suono può apparire sia transitorio che immanente, caratteri che finiscono per elidersi a vicenda.
La verità è che un’arte simile richiede molto più di quanto sembra: davvero non si tratta semplicemente (e fosse semplice!) di prestare attenzione, svuotare la mente e concentrare ogni sforzo percettivo sul suono in sé, ma accedere a una dimensione in cui esso si auto-trascende e smette di significare persino come mero fenomeno psico-acustico.
Sembra essere questo il livello al di là dell’oggettivazione di Feldman, che pure rimane il riferimento primario dell’opera per piano solo (1994-2016) di Pisaro, qui eseguita dallo stretto collaboratore Reinier van Houdt. L'
essere-tempo che già anelava al superamento del dominio musicale, assolutizzandone gli elementi costitutivi, nelle partiture più estese appare come un distillato di
essere, non come gesto affermativo bensì come presenza estranea e inafferrabile.
Note e bicordi non più qualificabili come dissonanti, non consequenziali e dalle geometrie variamente esatte, levitano appena similmente a un pulviscolo, unite per osmosi ai loro “fantasmi” (gli armonici naturali di “Akasa”) o al ronzio quasi assente di onde radio – estrapolate da Pisaro nel territorio circostante al luogo di registrazione – che attraversano il cielo più terso che si possa immaginare (“The Earth And The Sky”).
Nei due segmenti di “Pi” l'iterazione di un solo tono, nel primo caso, attraversa circolarmente una gamma di processazioni acustiche, nel secondo, mira a generare una risonanza artificiale che ne costituisca un riflesso non contaminato dal gesto, per quanto minimo. In “Fade” risuona la “Musica Ricercata” di Ligeti, spogliata dell'originaria tensione drammatica e sversa nel mezzo di lunghi intervalli che la rendono simile a un ciclo di
études cristallini e conchiusi in loro stessi. Con un andamento più regolare “Les Jours, Mon Aubépine” e “Fields Have Ears (2)” si rifanno direttamente al capolavoro “Triadic Memories”, meditazione
feldmaniana per eccellenza.
Infine, con dedica allo stesso van Houdt, "Green Hour, Grey Future" è la composizione più recente (il cui titolo ha ispirato anche le nette cromie dell'
artwork) e occupa l'intera superficie del terzo disco: è la prima graduale apertura a un'espressività più ampiamente condivisa, un post-romanticismo che ricalca le progressioni ambient di
Harold Budd, allineate a tratti con risonanze rovesciate, onde corte e altri inserti elettronici a bassa frequenza, difficilmente avvertibili senza l'ausilio di buone cuffie.
Non poteva esserci pietra d’angolo più solida di “The Earth And The Sky” per la nuova serie ErstClass, vale a dire le cellule elementari originate dopo aver fatto
tabula rasa della tradizione. Il gravoso bagaglio storico addossato al pianoforte si è completamente dissolto: con lo stesso approccio verso ogni residuato del classicismo, Wandelweiser risale alla radice neutra dello strumento – forse mai davvero esplorata – e in maniera (appunto) radicale rimette ogni volta sul tavolo il dilemma contemporaneo relativo al concetto stesso di espressione artistica. In molti ancora rigettano l’idea che una simile ricerca abbia ragione di proseguire, ma è (anche) su questo che oggi la nuova composizione si interroga ossessivamente, cercando forse nulla ma con un senso dell’orientamento più spiccato di quanto sembri.
Lo spazio e il tempo dell'ascolto vanno ricercati non soltanto nella quiete notturna, ma anche a debita distanza dalla maggior parte degli stimoli sensoriali che permeano la nostra normale esistenza; la loro sovrapposizione è il primo ostacolo da aggirare per accedere allo stretto condotto che può rivelarci quello “stuplime” che le parole inevitabilmente tradiscono.
12/01/2017