Crocodiles

Dreamless

2016 (Zoo Music)
synth-pop

Oh no, what’s the lonely critic think
as he scrubs his judgments in his mother’s sink

 

Chissà da quale avello i Crocodiles hanno pescato il subisso di astio con cui è stata farcita la loro sesta e più recente fatica sulla lunga distanza, “Dreamless”. Probabile c’entri l’insonnia, di cui Brandon Welchez ha confessato aver sofferto nelle settimane delle registrazioni. Più credibile, comunque, che ad avere avuto un peso determinante sia ciò cui il titolo della raccolta allude davvero, il brusco risveglio da una fase di successi, raccontato dai due californiani chiamando in causa generici problemi di salute, relazionali e finanziari. Se al curaro dell’invettiva di “Welcome To Hell” aggiungiamo quello che doveva essere il titolo originale di “Maximum Penetration”, “Don't Let The Critics Get You Down”, dovrebbe essere peraltro chiaro che una bella fetta di questo rancore la coppia Welchez-Roswell intenda riservarla alla stampa, rea, a quanto si evince, di non essersi mostrata granché accomodante nell’accogliere la svolta simil-glam del precedente “Boys”.

Registrato dall’amico Martin Thulin (degli Exploded View) nella nuova casa di Brandon a Città del Messico, l’album abiura senza mezzi termini i trascorsi della band tra fuzz-rock, psych-pop e garage-noise furbetti. Per contro, opta per una virata abbastanza decisa in territori synth-pop, ambiziosa quanto scialba, a ben sentire. Se il disco merita in qualche modo un ascolto, è solo perché si presta a essere portato a esempio della precoce eclissi di una compagine in passato anche promettente. Può destare curiosità, in particolare, il cortocircuito che vi si innesca tra sonorità dolciastre e testi che fanno riferimento a un viaggio nella frustrazione, nel pessimismo cronico e, per non farsi mancare nulla, anche alla perdita di qualche amico nel tragitto: nulla che possa essere aggiunto comunque tra le ideali voci positive quando è l’ora di tirare le somme, con buona pace della riottosa sensibilità alle critiche dimostrata dagli statunitensi.

“Telepathic Lover” apre con una festicciola di chitarre acustiche, pianoforte omeopatico e organetti color pastello a saturare ogni spazio un tempo appaltato alle elettriche, per un dream-pop appena marezzato ma un tantino scolastico in termini di scrittura. La già citata “Maximum Penetration” rincara la dose con sottili astrazioni spacey e ipotiposi atmosferiche trapuntate da tastiere volutamente acidule, per un surrogato della consueta psichedelia della casa, scaltrito al punto giusto ma assai meno fascinoso di quanto i Nostri forse sperassero. Sono le idee valide a far loro difetto stavolta, e l’attuazione di questo slittamento formale suona un po’ troppo didascalica e telefonata per poter davvero intrigare.

Effettistica un tanto al chilo, echi, espedienti tecnici da quattro soldi e refrain al grado zero non hanno modo di compensare i limiti di un’esplorazione sonora tanto variegata quanto inutile, un simulacro vuoto che non seduce neanche per sbaglio e annoia spesso e volentieri. Quella che emerge è semmai una caricatura per nulla divertente dei Crocodiles originali, oltreché una spenta imitazione dell’analoga svolta firmata Mark Lanegan, di cui conserva solo il grigiore pur con ben altre cadenze (e dire che la mortifera ma disincantata “Go Now”, un emblema in tal senso, si propone tra le pagine meno indecorose di “Dreamless”). Se “Jumping On Angels” offre un po’ di movimento in più, pur con suggestioni ancora confinate nel campo di un’amatorialità scadente e priva di alcun entusiasmo, “Alita” azzarda un’ibridazione quantomeno fuori luogo con la musica popolare del Sudamerica, anche se il cantato impastato, la guazza dozzinale e la totale assenza di spessore romantico (che in casi del genere servirebbe, eccome) portano il risultato ad affondare mestamente tra le pieghe del grottesco involontario.

Altrove i due di San Diego guardano piuttosto a certi ammiccamenti electro-pop anni Ottanta, ma perseverano nell’errore di restare fermi alla superficie, a una blanda simulazione che non apporta nulla di personale e nemmeno vale come indebita appropriazione stilistica o come generico omaggio a un mondo sonoro tornato di moda con prepotenza. Le cose funzionano appena meglio nei rari frangenti in cui sono di scena le chitarre rombanti di un tempo, anche se le loro quote restano così minoritarie da perdersi nel pastone sintetico senz’anima che fa da piatto fondale espressivo (“Welcome To Hell”): la fiera del banale, del raffazzonato, della desolazione. Giusto “Jailbird” recupera in extremis qualche brandello dello smalto perduto, a riprova che i Crocodiles non possono prescindere dalla propria esuberanza rumorosa e riverberata, il solo terreno in cui ancora sappiano muoversi con la necessaria confidenza.

Decisamente meglio, restando all’anno in corso e a queste sonorità, quanto fatto dalla signora Welchez: quella Dee Dee che, accantonate le Dum Dum Girls, ha esordito in maniera egregia con il progetto solista Kristin Kontrol.

28/11/2016

Tracklist

  1. Telepathic Lover
  2. Maximum Penetration
  3. Welcome To Hell
  4. I'm Sick
  5. Go Now
  6. Alita
  7. Jumping On Angels
  8. Time To Kill
  9. Jailbird
  10. Not Even In Your Dreams

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