Chi sono i Korn oggi?
Rispondere a questa domanda è arduo e non si può prescindere dai numerosi cambiamenti incorsi lungo la loro carriera, in primis (ma non solo) per via del fatto che dopo gli esordi eccezionali la parabola discendente degli statunitensi è stata lunga e inesorabile, soprattutto negli ultimi tredici anni tra mal riuscite sperimentazioni sonore (a cavallo di industrial, synth-rock, heavy-rock, darkwave e persino dubstep/brostep) e meno convincenti ritorni alle origini.
Eppure, nonostante negli ultimi anni i Korn abbiano scarsamente convinto pubblico e critica con degli album davvero trascurabili, "The Serenity Of Suffering" è in un certo senso il loro disco migliore dal 2003 a oggi, a livello di scrittura delle canzoni, arrangiamenti e coinvolgimento sonoro. Il tocco del chitarrista Head è avvertibile fin da subito mentre Davis sembra ispirato in fase di scrittura come un tempo: mai negli ultimi anni si sono intravisti un songwriting tanto curato, riff cavernosi e pesanti così graffianti, linee vocali variopinte che cambiano continuamente da ritornelli melodici a sfuriate nevrotiche (per quanto Davis fosse sempre rimasto il più versatile e convincente).
In senso assoluto, il risultato si mostra discontinuo e altalenante tra spunti efficaci e altri più deboli a prescindere da tutto. Manca la costanza per tutto l'album, la capacità di scrivere grandi canzoni per tutta la sua durata, invece non solo ci sono troppi filler mediocri ma anche molti buoni pezzi sono trattenuti da elementi negativi. Per esempio "Rotting In Vain" ha quello che forse è il loro riff più accattivante e trascinante da 15 anni a questa parte, anche se è purtroppo rovinata da un ritornello mediocre, in cui Davis all'improvviso diventa piatto e vocalmente sbiadito; al contrario "Everything Falls Apart" mescola melodie strumentali catchy non proprio irresistibili a sfuriate vocali degne dei tempi migliori. Se tutto l'album fosse come nei riff della prima e nelle linee vocali della seconda sarebbe un ritorno eccellente.
La produzione è affidata a Nick Raskulinecz (Foo Fighters, Mastodon, Rush, Deftones, Evanescence e altri) e risulta impeccabilmente curata tranne che per il basso, che viene smorzato e non emerge a sufficienza, attenuando la potenza di Fieldy, difetto grave.
Ma fin dall'iniziale, riuscita, "Insane", la sensazione è che i Korn abbiano scartato anni di confusione per concentrarsi sul periodo centrale di carriera, quello che ha dato loro i maggiori consensi, ritrovando quindi un'ispirazione che non suoni né un pastone melodico sbrodolato né un riciclo del primo album.
Paradossalmente, la debolezza dell'album è proprio questa operazione che non suona come una reale e spontanea evoluzione stilistica che recupera gli elementi migliori del proprio passato, ma come un ruffiano riciclare vecchi stilemi, solo cambiando la formula da riproporre. Eppure il pesante mix di riff sincopati e suoni lisergici di "Calling Me Too Soon", le melodie dark-industrial inquietanti di "When You're Not Here" (il vertice del disco, assieme all'angosciante "Black Is the Soul" e a "A Different World" su cui è ospite Corey Taylor degli Slipknot), la ferocia melodica della bonus track "Baby" singolarmente svelano un songwriting sorprendentemente più curato, soprattutto se posto a confronto con molti album passati, e con diversi brani di per sé riusciti. Ma qui i Korn si fermano.
Per contro la ripetitività e la scontatezza rimangono ombre palpabili. La conclusiva (se si eccettuano le bonus track) "Please Come For Me", copia sbiadita del periodo di "Life Is Peachy" e "Follow The Leader", lascia un senso di incompiutezza non indifferente.
"The Serenity Of Suffering" è il disco dei Korn più ascoltabile dai tempi di "Take A Look In The Mirror" (forse escluso), ma è un lavoro estremamente di maniera, che fa molto riferimento al sound di "Follow The Leader", "Issues" e "Untouchables", senza però eguagliarne la creatività. Una ennesima operazione-nostalgia, solo verso album differenti rispetto agli altri lavori korniani pubblicati su tali premesse? A chi si rivolge il disco, e chi dovrebbe rappresentare il ragazzino in copertina, il possibile nuovo pubblico o l'animo del gruppo? È fuori tempo massimo che, a oltre quarant'anni suonati di età, i Korn ripropongano quelle vesti? Oppure tali vesti sono quelle reali dei Korn, quelle che più si confanno alla band, ed è nonostante i pezzi deboli un gradito ritorno perché gli americani si mostrano coerenti con loro stessi invece di indugiare in maldestre uscite dagli schemi (che portarono all'abbandono di Silveria)?
La copertina sembra giocare con i cliché più stereotipati del nu-metal, quasi a farne una parodia, ma i Korn non stanno prendendo in giro i luoghi comuni su di loro e al tempo stesso non credono realmente di essere ancora gli stessi di un tempo. Jonathan Davis ha ormai 45 anni, può continuare a impersonare il ruolo dell'adolescente a disagio e risultare credibile? Persino Chino Moreno, Trent Reznor e Mike Patton nel 2003 criticarono lui e l'intera scena, chiedendosi se a 30 anni e passa (all'epoca!) ci fossero sincerità e genuinità nel continuare a comporre musica su madri cattive e pessima infanzia, chiedendosi "da quanti anni è che Davis non vive con i suoi genitori ormai?"
Forse la domanda che ha attanagliato i Korn negli ultimi tempi sarebbe meglio continuasse ad aleggiare: cosa vogliono fare? Chi sono i Korn? Cosa vogliono esprimere e comunicare dopo oltre 20 anni di distanza dal debutto? Se la risposta, come potrebbe essere interpretata, sia viaggiare sul sicuro e vivere sugli allori delle formule passate recitando ancora il ruolo della sofferenza adolescenziale, allora emergono ancora più dubbi sulla creatività artistica del gruppo, e l'unica cosa da attendere è che almeno il gruppo componga un disco buono per tutta la sua interezza e non solo a sprazzi. È una soluzione che, come al solito, dividerà pubblico e critica.
22/11/2016