Okkervil River

Away

2016 (ATO)
songwriter, chamber-folk

I thought that it was us against the world
But now it's me against something so big and abstract
That I can't tell what it is.
Morire. Rinascere. Comincia con un funerale, l'ottavo album degli Okkervil River. Un cimitero di campagna, una funeral band dall'aria dimessa, un predicatore con le braccia levate al cielo. E la salma di Will Sheff che canta la sua stessa dipartita. "Okkervil River R.I.P.", annuncia il brano chiamato ad aprire il disco: un necrologio per il passato, un prologo per il futuro. Le esequie messe in scena nel video non sono che il primo capitolo di un nuovo racconto. Will Sheff è più vivo che mai e "Away" è l'atto della sua personalissima rifondazione.

A volte bisogna perdere tutto per poter ricominciare. La realtà deve metterci alle strette, per convincerci ad abbandonare le gabbie che ci siamo costruiti intorno: "Forse quando le cose ti crollano addosso è perché non erano fatte per durare", riflette Sheff. Negli ultimi anni, dopo l'uscita di "The Silver Gymnasium", di cambiamenti la sua vita ne ha subiti parecchi: dalla diaspora dei vecchi compagni di band alla disillusione nei confronti di un'industria musicale sempre più allo sbando, fino ad arrivare alla scomparsa del nonno, T. Holmes "Bud" Moore, ai suoi occhi l'ultimo vero gigante in un mondo di nani.
Così, Sheff ha deciso di lasciarsi tutto alle spalle. In perfetta solitudine, in una casa tra i boschi dei monti Catskill, i pensieri hanno ricominciato a prendere la forma di canzoni. Canzoni scritte più per se stesso che per gli altri, senza nemmeno la certezza che gli Okkervil River, alla fine, sarebbero esistiti ancora.

Il requiem di "Okkervil River R.I.P." porta dentro tutto questo, tutta la consapevolezza di chi si guarda allo specchio cercando di riconoscersi nel riflesso: un'elegia acustica in cui lo scorrere inesorabile del tempo ("I was turning thirty-eight/ I was a horrible sight") è velato dall'ombra della mortalità. La folksinger Judee Sill, gli alfieri dell'r&b anni Ottanta Force MDs: Sheff evoca il destino delle loro voci, tutte venute a mancare prima del tempo. E pensa alla morte che arriva inattesa, spezzando il filo sottile dei sogni e dei progetti. La fine di una persona cara, dopo una vita lunga e intensa. La morte interiore che porta via una parte di sé.
Il crescendo si fa strada lentamente, tra le punteggiature del piano e il bordone del basso. Un tempo sarebbe sfociato nella catarsi dell'inno, oggi resta sospeso in un'aura di malinconica contemplazione.

Perché "Away" è un disco che si svela con pudore, evitando le scorciatoie più immediate: i brani si dilatano assecondando l'intuizione di un attimo, si concedono all'improvvisazione, vanno in cerca di un calore capace di nutrire e di curare. "Ho messo insieme i migliori musicisti newyorkesi cui riuscivo a pensare", racconta Sheff, "gente di cui amavo il modo di suonare e la personalità e che avevano più che altro un retroterra jazz o avant". I nuovi Okkervil River si allontanano così dalle coordinate familiari dell'indie-rock, inseguendo piuttosto il Van Morrison di "Astral Weeks" o il revival psych-folk di Jonathan Wilson (chiamato non a caso a occuparsi del mixaggio del disco).
Una rotta accompagnata con discrezione dalle partiture orchestrali di Nathan Thatcher, con l'apporto dell'ensemble classico yMusic (già al fianco di gente come Dirty Projectors e José Gonzalez). Ecco allora il prologo della soffusa "Call Yourself Renee" assumere un afflato cameristico, con il sussurro di Marissa Nadler ad affiancare Sheff nei cori. Poi, un flauto bucolico si insinua tra le pieghe di "She Would Look For Me", mentre sul battito incalzante di "Judey On A Street" si aprono all'improvviso volute di archi e fiati alla Sufjan Stevens.

Già dalla copertina, del resto, "Away" mostra di parlare un linguaggio diverso dal passato: per la prima volta non tocca al tratto spigoloso di William Schaff illustrare un disco degli Okkervil River, ma al morbido naturalismo del pittore del Wisconsin Tom Uttech.
Solo l'arpeggio delicato di "Comes Indiana Through The Smoke" sembra riportare indietro la memoria, attingendo direttamente alle atmosfere di "Down The River Of Golden Dreams", con l'eco della tromba a sottolineare il dipanarsi di una delle melodie più cristalline dell'album. È la tromba del nonno di Sheff, veterano della Seconda Guerra Mondiale, preside di una scuola e (non ultimo) provetto musicista jazz. Il brano è dedicato proprio a lui, al suo addio e al fantasma della corazzata USS Indiana, la nave su cui aveva prestato servizio nel Pacifico, che come in un sogno riemerge dalla nebbia per venire a traghettarlo nel grande mistero che sta dall'altra parte.

Il momento in apparenza più spigliato del disco, "The Industry", è anche paradossalmente quello più amaro e personale di tutti: "The cheaper that the music starts to get/ It's like they're trying to make us cheap along with it", confessa Sheff osservando con un misto di disincanto e frustrazione lo stato del mondo della musica. Dello slancio di un tempo sembra restare solo l'aritmetica dei voti di Pitchfork: "Do you remember, baby, back in '96?/ When some record was enough to make you raise your fist?/ When some singer 'd make you sure that you exist?".
"Just let go", è la risposta sullo sfumare del passo flessuoso di "The Industry". Lasciare andare il passato, lasciare andare chi hai amato e chi ti ha ingannato, lasciare andare tutto quello che imprigiona la vita. Abbandonare la paura. E, finalmente, ritrovare il proprio posto nel mondo. "I'm not scared to die as long as I know that the universe has something really to do with me".

20/09/2016

Tracklist

  1. Okkervil River R.I.P.
  2. Call Yourself Renee
  3. The Industry
  4. Comes Indiana Through The Smoke
  5. Judey On A Street
  6. She Would Look For Me
  7. Mary On A Wave
  8. Frontman In Heaven
  9. Days Spent Floating (In The Halfbetween)




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