Roar

Impossible Animals

2016 (President Gator)
dream-pop

Only took me 4 years.
E’ laconico Owen Evans, nel liquidare il suo sudatissimo esordio con una frasetta che, a ben vedere, non potrebbe essere più illuminante di così. Quattro anni, ma è come dire una vita intera. Quattro anni di una gavetta che pare eterna, la scialuppa dei sogni Roar perennemente a rischio naufragio e il solo conforto di una manica di amici con cui condividere su un palco il faticoso arrangiarsi del musicista spiantato: Ben Gallaty, bassista degli AJJ, Lonna Kelley, Robin Vining (già con Jimmy Eat World e Califone), Nick Krill della Spinto Band e Stephen Steinbrink, gli ultimi due anche attivamente coinvolti in questo debutto nei panni dei coproduttori. Sul conto dell’artista di Phoenix ci saremmo limitati all’etichetta di bella promessa – considerati i due Ep licenziati in sordina tra il 2010 e il 2012, prima di questo lungo iato – o di soldatino nei ranghi dei concittadini Andrew Jackson Jihad. Proprio uno split single condiviso l’agosto scorso con i suoi occasionali compagni di viaggio ha di fatto sancito la chiusura del nascondino. “Impossible Animals”, pressoché ultimato, era pronto a uscire dal cassetto.

Facile scommettere allora su “Dream” come parola d’ordine. Owen se ne appropria e la modella come una perfetta coperta di Linus quando è l’ora di presentarsi, sotto una crosticina di riverbero, con una mesta celebrazione della malinconia, memore del miglior John Grant (quello degli Czars di “The Ugly People Vs. The Beautiful People”) e programmatica per titolo e coordinate, tra aspirazioni sunshine frustrate e un’indole non così distante da certa poetica sadcore. Giusto un passo più in là, “Ghost” sposta con prepotenza le suggestioni verso il trasognato indie-rock a firma Jason Lytle, senza la giovialità tipica della sua band ma con in cambio pulsioni pop al cristallo degne di un idolo dichiarato come Brian Wilson.

Il trionfo, in tal senso, arriva con le gemme “Truck Stop Tiger” e “Explosion Of Birds” (i lucherini americani della copertina?), citazioni del verbo Beach Boys tanto spudorate quanto entusiasmanti per la sincera passione (ai limiti del devozionale) che emanano, capolavori in cui ogni battito, sonaglio o sonorità ricalca il modello con accuratezza da filologi. Ma anche le alchimie del cantante dei Grandaddy sono destinate a trovare ulteriori duplicazioni (“Fading Kitten Syndrome”, il congedo di “The Ocean”), tra coretti celestiali, fiati e clavicembali appena sporcati dall’elettronica, poca ma molto ben impiegata.

Resta appena accennata, accanto ai toni elegiaci e alla spensieratezza, una sorta di triste struggimento, nella forma di acidule suggestioni o di ipotesi fotografiche sovraesposte: un concentrato di espedienti formali che Evans riesce a padroneggiare e ad armonizzare con innegabile talento, senza lasciarsi schiacciare da questo o quel risaputo cliché e sapendo anzi affermare il proprio romanticismo fuori moda con la necessaria personalità. In questa piccola macchina da guerra che è “Impossible Animals”, la dolcezza flautata non conosce pause al pari del versatile cantato del Nostro, generosissimo in quanto a falsetti o sfrenati cambi di fronte melodico: una preziosa schizofrenia che si estende anche alle cadenze e può seriamente dare alla testa, viste le continue alterazioni dell’ideale curva glicemica.

La nostalgia è così modellata in calchi esemplari, canzoncine brevi ma particolarmente intense che somigliano a corse su una giostra dalle luci scintillanti, pure congelata in un ricordo ormai remoto. Una prova di artigianato povero che al momento opportuno sa regalare slanci d’espansività a dir poco disarmanti, anche senza silenziare l’amarezza di quelle atmosfere sospese in una distanza non più colmabile, nelle brume di un passato idealizzato ma il cui sole ha perso la facoltà di scaldare. Una collezione di caroselli alla saccarina, di tristi ballate destinate a schiantarsi in una vertigine, che prosegue quindi implacabile, sublime e dolorosa a un tempo, arrivando a coinvolgere i Radiohead – nel refrain di “Theophobia” è annidata più di un’innocente evocazione da “Paranoid Android” – e il fragile incanto del Bradford Cox di “Halcyon Digest” (“Little Sisters”), con la sua rarefatta poesia, le sue astrazioni e il suo lento crescendo emotivo a marchio registrato.

Insomma, in questo esordio di Roar abitano il diy di un F.M. Cornog e la visionarietà barocca degli amati Os Mutantes, pur con un’attenzione al dettaglio e una disciplina che rigettano tanto la magica approssimazione del primo quanto la felice istintualità dei secondi, e non mostrano alcuna riserva nella loro maniacale aspirazione al perfezionismo. Qualcosa di quantificabile in quattro anni, volendo approssimare. Poca roba, comunque, a fronte di una carriera ancora tutta da scrivere e che a Evans auguriamo ricca di soddisfazioni.

13/12/2016

Tracklist

  1. Dream
  2. Ghost (Of 7th St.)
  3. Explosion of Birds
  4. Little Sisters
  5. Hope
  6. Goldfinch Nocturne
  7. Theophobia
  8. Fading Kitten Syndrome
  9. Truck Stop Tiger
  10. The Ocean