Le icone oggi sono poche, almeno in campo musicale, e Robin Proper-Sheppard può sicuramente fregiarsi di questo titolo. L’osservazione è banale, ma questo suo ritorno, a ben sette anni da “There’s No Goodbyes”, ha proprio nell’essere iconico uno dei suoi aspetti fondamentali: i suoi brani, declamatori e imponenti nella loro epica monolitica, la produzione marmorea e i refrain quasi scolpiti (“St. Tropez/The Hustle”) producono una stele immediatamente riconoscibile per i fan dei Sophia.
E qualche vecchio brivido stazzonato si può provare, anche in “As We Make Our Way (Unknown Harbours)”, anche se nella forma “adulta” e un po’ qualunque di “Baby, Hold On”, o nell’Americana “spazzolato”, alla Greater Pacific, di “Don’t Ask” e “The Drifter”. Un po’ tutto il disco, a proposito, gioca sui cliché della malinconia e dell’irrequietezza (“I’m a drifter, babe/ You caught me on the road/ So why don’t you let me go”), e certamente sul piano lirico non è il più ispirato di Proper-Sheppard (anche l’esistenziale “It’s Easy To Be Lonely” non è da meno, “Resisting” sfiora l’imbarazzo).
Sul piano degli arrangiamenti, si segnala anche qui una certa “medietà”, sia nelle giovanilistiche code corali (“Resisting”, mentre “You Say It’s Alright” è una coda corale) che nei brani più di maniera (“The Drifter”, “Don’t Ask”).
Nonostante l’impressione generale di una solenne processione dai toni gravi e imperiosi, la scrittura e l’esecuzione del disco lo collocano in realtà vicino a un prodotto midstream “alt-rock” (la sconcertante “Blame”, il tentativo socio-politico “California”), in un parallelo non lusinghiero (per i Sophia) con la proposta attuale dei Low.
Il tutto riesce infine, mettendo insieme musica, testi e interpretazione, come una specie di opuscolo divulgativo di quanto il movimento di cui i Sophia hanno fatto parte vorrebbe esprimere – spiegato ai neofiti.
11/04/2016