The Conquerors

Wyld Time

2016 (High Dive)
power-pop

In barba all’indefessa opera di ricognizione messa in atto da etichette venerabili quali Trouble In Mind e Burger, è la piccola High Dive a regalare uno dei nomi nuovi più sorprendenti dell’anno in orbita garage-revival. Si tratta dei Conquerors, sestetto di Kansas City capitanato dal brillante Rory Cameron, alla sua seconda uscita dopo un mini pubblicato solo su cassetta (e in edizione più che carbonara) qualche tempo fa.

Suono pieno e arrembante, basso melodioso, eccelso compromesso tra ruvidezza e dolcezza: di fatto, questo di “Wyld Time” è il power-pop al meglio delle proprie potenzialità espressive. Che non nega asilo, peraltro, a una felicissima propulsione rock (ereditata per via indiretta dai Monkees) oltre a un impeto romantico che è parente stretto, strettissimo, della nu new wave anni Zero e trova la sua più compiuta espressione nella trionfale tracotanza di una title track che pare in tutto e per tutto un’outtake degli Strokes infognati come non mai con le rievocazioni garage, padroni della purezza e dell’urgenza anche ruffianotta dei loro giorni belli.

Seguendo questa linea, in “Wyld Time” pare a tratti di riascoltare il Matthew Melton dei Bare Wires o, ancor più, i sensazionali Death By Unga Bunga dei primi passi, sfrontati e alimentati nell’ingenuità dei loro vent’anni da un fuoco sacro ancora non degradato a blanda maniera o caricatura di uno stile. Il gioco dei rimandi furbetti alla band di Casablancas si fa scoperto con il titolo della traccia numero sette, “This Is It”, allusione persino ovvia al celeberrimo esordio della compagine newyorkese, per quanto non si spinga più in là dell’intestazione: per il resto è infatti un’incontaminata aura tardi sixties a rubare la scena.
Squillanti e agguerriti quanto basta, i Conquerors hanno forse qualcosa in più rispetto a altre eccellenti compagini maturate in territori affini negli ultimi anni, Gentleman Jesse & His Men in testa: più che formidabili esplorazioni a ritroso in un passato che è ormai pura mitologia, le loro canzoni riescono sufficientemente vive e grondanti ma, cosa più importante, divertono.

Altrove, tuttavia, piegano con maggior decisione verso un citazionismo a tutto tondo (“Can’t You See?”, “Turned Me To Stone”), servendosi di quella loro prodigiosa propensione melodica e riportando al grado zero ogni possibile pretesa sull’attualità. A farla da padroni sono le animazioni beat, i Farfisa assassini e un bernoccolo per il modernariato assai più convincente che in tante realtà ormai ampiamente accreditate in seno al grande circo del derivativo, anche senza far pesare un’esattezza formale nella trasposizione che appare impeccabile sin nel più infimo dei dettagli. Con “Too Good To Be True” accarezzano lo scranno più alto in zona Nuggets polveroso con la stessa autorevolezza che ha già visto quest’anno i Cool Ghouls incantare nella beatitudine delle loro riletture jangle-pop, rilasciando giusto qualche inflessione beatlesiana in coda ma senza esagerare.

Questa loro sfrenata inclinazione a un revival tanto smaliziato quanto sincero equivale a una candidatura formale tra i più convincenti epigoni di Reigning Sound e Resonars, posto che i modelli rimangono comunque inarrivabili. Per non precludersi alcun orizzonte, Rory e compagni pescano anche dal retrobottega dei sogni di marca Coral (“Guess I Was Wrong”), riuscendo nell’impresa di suonare personali e credibili pure al millesimo riciclo del verbo byrdsiano, di cui replicano fino in fondo l’intatta fragranza (magari nel filtro del Paisley Underground, perché no?).
Manca – è inevitabile – il riscontro che valga la relativa consacrazione, ma nell’attesa che arrivi, beh, appuntatevi da qualche parte il nome: The Conquerors, niente male davvero.

18/12/2016

Tracklist

  1. Yes I Know
  2. Wyld Time
  3. How I Love You
  4. Can't You See
  5. Guess I Was Wrong
  6. Turned Me To Stone
  7. This Is It
  8. Too Good To Be True
  9. I'll Get You Someday
  10. Telling You (It's Alright)

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