Di origini cubane, Xenia Rubinos ha già dato prova delle sue abilità a canto e arrangiamento nell'ancora interlocutorio "Magic Trix" (2013). Il secondo "Black Terry Cat" spinge maggiormente sulla sua latente personalità di diva soul.
Ne beneficia in primis il canto mediamente camaleontico che può, così, divagare languido e meccanico in soundscape rarefatti se non proprio spettrali. È il caso di "Don't Wanna Be", ma il processo seguita e aggiunge il potere della nevrosi nell'hip-hop nerboruto Erykah Badu-esco tutto voci ed echi di "I Won't Say", con un refrain tintinnante jazzy, nella sorniona e quasi dadaista "How Strange It Is" (con clarino e piano scordato), nello scat electro-funk di "See Them" (un montaggio sonoro-freudiano di ritmi), nelle invocazioni muezzin di "Lonely Lover".
Ma Rubinos suona ancor più a suo agio nel rimescolamento degli ingredienti, in particolare quando cerca il fuoco: "Mexican Chef" sembra quasi campionare la "Sunshine Of Your Love" dei Cream per fratturarla in senso jungle, e "Just Like I" è un'altra vampa emozionale che fa leva sul blues-rock. Il contrasto tragicomico è sottilmente esilarante.
Zavorrata dai segmenti di lega leggera, un eccesso di tecnologia a favore dell'antiquariato in "Black Stars" e un eccesso di ego in "Right?" (ma anche una superflua produzione satura di effetti artificiali e intermezzi amatoriali che spezzano un ritmo già fiacchetto), è una buona cartina tornasole sullo stato di vitalità della black femminile di metà decennio 10. La supera, in coraggio e competenza, la "Emily" di Esperanza Spalding.
15/06/2016