È arduo trovare un po' di poesia nei testi di una canzone. All'incirca la stessa probabilità che ha un miope di scorgere un quadrifoglio in mezzo a un prato. Un lavoro che punti sui testi quindi - come l'ultimo di Father John Misty - dovrebbe armarsi di versi importanti per poter sopravvivere alla diabolica morte di ogni forma d'arte: la noia, sua tomba e putrefazione.
Quest'album, complessivamente, non lo fa. Per scelta o per necessità - non è dato saperlo - Tillman si tiene alla larga da intuizioni melodiche degne di nota, che invece caratterizzavano svariati episodi del precedente "I Love You, Honeybear". "Pure Comedy" è una nenia che dura più di un'ora e che in calce riporta la firma di un artista che si contraddistingue per tre motivi: 1) possedere una voce riconoscibile; 2) avere una certa dose d'indiscutibile talento; 3) credere che questo talento sia molto più di quello che realmente è.
Bello e un po' bohémien, l'ex-batterista dei Fleet Foxes è il tipo che come te al liceo ascoltava gli Alice in Chains, solo che lui, da dannato vero, li capiva e tu no; è uno che canta frasi ad effetto come "scoparsi Taylor Swift ogni notte, con la realtà virtuale", salvo poi rilasciare dovute puntualizzazioni; è uno di quelli che alla domanda "hai una tua spiritualità?" risponde: "Creo significati da me stesso..."; insomma, uno che potrebbe dire "faccio cose, vedo gente" in un film di Nanni Moretti.
In un qualche universo parallelo, Elton John è nato vicino a Chesapeake Bay, prende per il culo la religione di tutti e scrive sulla commedia dell'uomo moderno, quello che non si ferma nemmeno di fronte a un bambino che si sta per strozzare con l'anguria, episodio accaduto in un negozio e palesemente autobiografico. "La musica dei Fleetwood Mac continuava ad andare come se nulla fosse. Quella fu la prima volta in cui capii che la commedia non si sarebbe fermata dinnanzi a nulla", canta Tillman in "Leaving LA".
Pur con le stesse rare divagazioni elettroniche, "Pure Comedy" è meno sfarzoso del predecessore e molto più lungo, con due suite da più di dieci minuti l'una. Se l'idea di un ibrido fra Don McLean e Mark Kozelek dovesse generarvi fremiti di piacere, questo può essere l'album che fa al caso vostro, altrimenti ascoltarlo da capo a fondo potrebbe rivelarsi lo sforzo più grande della vostra vita, secondo soltanto a quello di farvelo piacere, per non dover contraddire l'ossequiosa e celebrativa critica di settore.
Il meglio arriva quando una batteria jazzy si spappola tra glitch elettronici e quando Tillman è più onirico e meno ironico, più introspettivo e meno politico, perché quando elugubra sulla miserabile condizione umana, produce retorica dozzinale e si veste di una spocchiosità che - oltre al danno, la beffa - compensa con una ridondante autoironia.
"Two Wildly Different Perspectives" e "So I'm Growing Old On Magic Mountain", nella coda di un interminabile sermone, sono il Father John Misty che vorremmo ascoltare, ma è troppo poco. Sono il pacchetto profumato di figurine che tuo padre ti dava dopo aver fatto i compiti, solo che le scuole sono finite da un pezzo.
25/03/2017