Questa la particolare sensibilità che identifica l'operato di Félicia Atkinson, da solista (anche nota come Je Suis Le Petit Chevalier) e in collaborazione con altri importanti figure della ricerca sul suono internazionale (lo scorso anno l'affascinante "Comme un seul narcisse" assieme a Jefre Cantu-Ledesma). Più che dalle visioni hi-tech di Holly Herndon, infatti, la ricerca della sound artist francese prende le mosse dalle fondamentali indagini meta-linguistiche di AGF - benché lei stessa sia oggi decisamente proiettata verso l'incubo digitale - ma al punto d'arrivo si trova imparentata soprattutto coi monologhi subcoscienti di Jenny Hval.
"Hand In Hand" è stato realizzato tra la residenza in Bretagna dell'artista e gli studi dell'Ems di Stoccolma, e anche a un primo ascolto sembra infatti risentire del gelido inverno svedese. In questo contesto l'artista ricava uno spazio creativo tutto suo, estremamente intimo e di non facile accesso: una bolla di significato sorretta dalla sola esistenza dei significanti in essa contenuti.
Discorsi indipendenti l'uno dall'altro, divisi tra passi letterari o poetici (J. G. Ballard, Philip K. Dick e la stessa Atkinson) e "ritagli" da vecchie riviste di escursionismo nel deserto, manuali d'architettura, libretti d'istruzioni per la botanica domestica. Mescolando queste sorgenti il sottile concept di "Hand In Hand" allude a una possibile comunione sonora e spirituale tra esseri viventi e non, sondando la loro necessaria interrelazione nell'ottica della sopravvivenza e della creazione di senso.
Così, nel solco del teatro catodico di Robert Ashley e dell'uncreative writing d'area newyorkese, l'uso della voce di Atkinson fa eco alla recente ossessione collettiva per le pratiche di induzione all'asmr (Autonomous Sensory Meridian Response), combinandola in diversi momenti a tenui linee midi o degli storici synth modulari Buchla e Serge, ossature di un immaginario fantascientifico vintage totalmente decontestualizzato. È un percorso entro il quale ci si può legittimamente sentire un po' come cavie di un esperimento percettivo, dove tra elementi familiari come percussioni tonali e rintocchi lontani di un campanile si insinuano un basso strisciante ("Monstera Deliciosa"), glitch da errore di lettura ("A House A Dance A Poem") e puro ritualismo dark alla Pharmakon ("Hier Le Désert").
La dimensione ideale di "Hand In Hand" sarebbe probabilmente quella dell'art space circondato da pareti acrome, coi relativi complementi visivi a fornire quantomeno un appiglio tale da favorire connessioni concettuali e sinestetiche. Come ascolto da studio, d'altro canto, l'ultima opera di Félicia Atkinson esige un proprio momento isolato e una dedizione non scontati, soltanto a partire dai quali possono originare suggestioni efficaci, per quanto evanescenti.
(18/05/2017)