Jen Gloeckner

Vine

2017 (Spinning Head)
songwriter, alt-pop
6.5

Nativa del Wisconsin e ora stabile in quel di Dubuque (Iowa), la cantautrice e multistrumenista Jen Gloeckner si afferma con l’anomala consuetudine di produrre dischi con molte tracce a sei anni di distanza uno dall’altro. Il debutto “Miles Away” (2003) è un’opera fieramente confessionale, acustica nella vena della prima Ani Di Franco, con almeno due numeri ragguardevoli, la hit “Hazy Sky” (con fiddle in stile Penguin Cafe e Clogs), e “Mountains”, ma anche le ballate per piano da chanteuse fatalista di “Glimpse” e “Otherside”. Un primo flirt con la produzione elettronica, disinvolta seppur ancora timida, si ha con il blues downtempo di “Nothing Personale” e il soul “Only 1”. Il secondo “Mouth Of Mars” (2009) è invece un lavoro da extraterrestre: praticamente tutte le tecniche e tutti gli artifici ornano un ciclo di canzoni in cui riversa l’intero mondo interiore. Ed è il suo apice artistico.

Altri sei anni e arriva il terzo, “Vine”, anche se stavolta i brani sono in numero più convenzionale, o quantomeno meno monumentale. Il procedimento di cura del suono inaugurato dal predecessore in ogni caso non si arresta, anzi quasi tende a travolgere l’ascolto, spingendosi fino a dimenticare la canzone cantata e a creare, in “Firefly”, un vero profluvio di frasi sonore, un puro pamphlet di scenografie (qui colte in un tam-tam tuareg-desertico).
Il carillon r’n’b della title track, una sonata eseguita con fervore chiesastico, si sofistica in “Breathe”, synth-pop alla Moroder ma rallentato in stile Massive Attack (ma quelli del momento glaciale di “100th Window”), e in “Prayers”, locomotiva techno riprodotta a un terzo dell’usuale velocità, da cui sgorga dunque un dream-pop di pregevole fattura.

La maggior porzione d’ispirazione sembra comunque provenire da un’improvvisa accensione di febbre per i passatismi: “Ginger Ale”, marcetta-fanfara blues dolcissima con archi da camera, l’inno di “Blowing Through”, la serenata spaziale alla Enya di “The Last Thought” (la più amena di tutte, con le parole a sperdersi in sospiri solistici e corali), lo smarrimento psichedelico dei Cowboy Junkies in “Counting Sheep”. “Row With The Flow” è forse il numero più debole, quello con il corredo più volatile; sgonfiato della produzione, il canzoniere di Gloeckner non ha molto altro da offrire.

Registrato in camera da letto, anziché in studio come i due predecessori, per rendere maggiormente l’idea di diario confessionale di melodie. Per appassionati del filone che dal dream-pop porta al trip-hop, a “Twin Peaks”, ai Mazzy Star, fino a Lana Del Rey. Riesce a discostarsene a tratti perentoriamente, a suon di spettacolose evoluzioni sonore, di sciolta mestizia tecnologica, che frutta, se non grandi canzoni, almeno attimi sublimi. “The Last Thought” è la preferita dell’autrice: anche la nostra. Sul finale smarrisce il filo e ripiega su due riempitivi, poco più di nude ballatine folk, “Colors” e “Fold”. Comparse di due chitarristi prestigiosi: John Ashton, Psychedelic Furs, e Henry Padovani, predecessore di Andy Summers nei Police.

02/08/2017

Tracklist

  1. Vine
  2. Firefly (War Dance)
  3. Breathe
  4. Ginger Ale
  5. The Last Thought
  6. Blowing Through
  7. Counting Sheep
  8. Prayers
  9. Colors
  10. Row With The Flow
  11. Sold

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