Ci sono dischi che godono di una dimensione propria; restano lì, fermi per anni nell’attesa che qualche anima pia e fuori dal comune riesca a riattivarne lo spirito. Sono opere che giacciono su piani distanti anni luce dal pianeta dell’industria discografica così come la intendiamo normalmente; appartengono a un’altra galassia, a uno spazio lontano e isolato dell’universo musicale. “Canzoni perdute” di Marisa Terzi è uno di questi casi. Non è un album come tutti gli altri. E’ qualcosa di più. E’ il manifesto tirato fuori dai cassetti della memoria di un’intera esistenza umana e artistica; il dono di un’autrice memorabile che ha scritto in punta dei piedi pagine sublimi della storia della nostra canzone, inanellando testi e musiche per artisti tra i più svariati. Molti suoi brani sono stati presentati al Festival di Sanremo in diverse edizioni, come la celebre “Se tu non fossi qui” nel 1966 per l'interpretazione di Peppino Gagliardi e Pat Boone, successivamente portata al successo con l'esecuzione di Mina; nel 1967 con “Quando vedrò” esibita dai Los Marcellos Ferial e The Happenings; nel 1968 con “Tu che non sorridi mai” regalata alla coppia Piergiorgio Farina e Orietta Berti, e il brano “Che vale per me” del duo Peppino Gagliardi/Eartha Kitt; nel 1969 con “Non c'è che lei” cantata da Sonia e Armando Savini, e infine nel 1972 con la splendida “Per amore ricomincerei” affidata a Delia.La malinconia colse di sorpresa i miei occhi, i pensieri tristi, le amarezze, le speranze, le illusioni.
Spia dell’amore per me è stato il vino. Un bicchiere in più. Chi me l’ha versato ancora non sapeva che non l’amavo più. Sarà la gelosia. Sarà la nostalgia che ho di te. Ma io piango stasera una lacrima vera. Perché non sei con me.
Una dichiarazione d’intenti palesata troppo da vicino perché l’amato marito ne cogliesse l’addio. Ma ciò che rende ulteriormente vibrante l’intera operazione, è l’arrangiamento fornito in studio dai vari sessionman. Un accompagnamento scarno, maledettamente sfuggente, che si pone in perfetta congiunzione armonica con la voce intensa e consumata dal tempo della Terzi, la quale trattiene le proprie emozioni legate ai ricordi di una vita e di un amore fortissimo, liberandole gradualmente come un fiore che diffonde pian piano il proprio polline, il suo profumo, la propria naturale essenza al mondo circostante.
Struggenti melodie d’altri tempi dominano incontrastate la scena, mentre una malinconia ubriaca di passione accarezza l’ascoltatore, conducendolo con grazia in un’atmosfera magica, nella quale del buon vino francese funge da coagulante nella sala di registrazione parigina al fine di sciogliere i nodi di un’emotività rigida in partenza, legata così com’è al significato profondo e personale delle parole. “Se me ne andrò” è la prima meravigliosa istantanea tirata fuori dal cassetto; un refrain immediato ed epocale che riscalda, conforta, avvolge intensamente. La musica scritta all’epoca da Carlo Alberto Rossi è semplicemente divina. Poche note essenziali, cariche di passione e fragili come foglie d’autunno. Una canzone che avrebbe scalato agilmente tutte le classifiche del tempo. Così come la successiva “Ricordati di me”: altra scarica di sublimi rievocazioni del cuore, tra momenti di vita quotidiana e l’accettazione di una sconfitta amorosa alla quale ormai non c’è più rimedio, se non quello di fuggire via, lontano, a bordo del primo taxi.
Il trittico iniziale è di quelli che lasciano senza fiato. La sola “Amore amore mio” vale l’intero prezzo del biglietto, mentre i quattro moschettieri seduti in sala diffondono dall’alto della loro classe esecutiva partiture jazz che scivolano via come gocce di vino ai bordi di un calice, tra accordi appena abbozzati, scale improvvisate che si sgretolano al primo cambio di direzione e una ritmica dolce eppure maledettamente brilla. “Vado via, vado via”, scritta interamente dalla Terzi, mette in evidenza la sua abilità di arrangiatrice e compositrice di livello. Un ulteriore e breve saggio del proprio incanto, della propria immensa vocazione artistica. La cantautrice di Berceto paralizza il tempo, accarezzandolo in un secondo momento con una nobiltà d’animo disarmante:
Io voglio vivere da cane o da padrone. Per te non sono che il resto di un gettone. Tutti i miei sogni li ho buttati a mare. E tu mi chiedi di far l’amore.
Tutto scorre all’insegna di una presa di coscienza ben localizzata nel tempo, a cui segue un velato rimpianto e una lacrima versata nel più amaro disincanto. Gli unici momenti meno “impegnati” sono la spagnoleggiante “Triste cancion” e il jazz nobile e leggero di “Drinking”, brano cantato rigorosamente in inglese. Le varie “Sento che succederà” e soprattutto ”La vacanza è finita” continuano invece a diffondere la sopracitata struggente malinconia, prima che il tempo si fermi nuovamente nei dieci minuti esatti della conclusiva “Avere vent’anni”, praticamente il testamento definitivo di un’intera esistenza, l’invito supremo e inarrivabile alle nuove generazioni nascosto dietro le pieghe di una nostalgia dei propri vent’anni che accappona la pelle, intristisce e infine illumina, cedendo il passo a una chitarra dilaniante.
Mai malinconia fu più accecante.
08/04/2018
1. Se me ne andrò
2. Ricordati di me
3. Amore, amore mio
4. Vado via
5. Triste canción
6. Canzone triste
7. L'amore
8. Sento che succederà
9. Drinking
10. La vacanza è finita
11. Avevo vent'anni