Rabit

Les Fleurs Du Mal

2017 (Halcyon Veil)
electro, avant

La principale creazione del produttore elettronico texano Eric Burton, Rabit, debutta con tre singoli preparatori: “Terminator” (2012), “Sun Showers” (2013) e “Double Dragon” (2013). La lunga “Dirty Laundry”, praticamente un remix ufficioso dell’omonima hit di Kelly Rowland comparsa in uno split con Logos (2014), fa capire come le intenzioni siano quelle di oltrepassare quanto prima le gabbie del grime.

Così fa il primo album lungo, “Communion” (2015), sorta di misto tra club music e drill’n’bass, con qualche spunto industrial, e un gusto precipuo per l’astrattismo. Con “Fetal” e “Pandemic” Burton rende ballabile (o quasi-ballabile) il collage d’avanguardia. Le connessioni colte infuriano in “Trapped In This Body” e “Ox”, alla Todd Dockstader, e fulgore delle sue tecniche miste è “Flesh Covers The Bone”, basata sulla pulsazione cardiaca e il bip dell’elettrocardiogramma, e “Black Gates”, che campiona e manipola persino Grieg.
A parte l’uso insistito e immaturo delle cacofonie e dello shock sonico, il disco è forse troppo gravato da un eccessivo bozzettismo e da un modus operandi glaciale.
Replica l’Ep “Baptizm” (2015), sua perfetta appendice. Dopo la raccolta di scarti “Excommunicate” (2016) e qualche collaborazione (Chino Amobi e Dedekind Cut), i quarantacinque minuti di “Supreme” (2016), dominati dalle voci soul e nigga, sono il suo assemblato più imponente e il suo acuto artistico.

E’ il ponte ideale per il seguito, “Les Fleurs Du Mal”. Burton tralascia quasi del tutto il beat: un’unica parvenza di base scandita (comunque qui remota e rallentata), nemmeno lontana parente della irrazionale frenesia jungle di “Communion” e “Baptizm”, sta nella cadaverica, stregata “The Whole Bag”. Preludio e postludio, “Possessed” e “Elevation”, sono costruiti alla stessa maniera, un brusio di cello e un affastellarsi d’interventi parlati colti dalla strada.
In “Roach” e “Rosy Cross”, ma anche altrove, sparpagliandoli, Burton affresca paesaggi di sconvolgimenti sonici con un che di descrittivo (attingendo, in egual misura, dall’elettroacustica aleatoria di Stockhausen e dal drone sinfonico). Brani come “Humanitys Daughter” sono schizofrenici: dapprima un incubo di voci e interferenze violente, quindi un adagio ieratico che tende al silenzio. Ma troppi brani suonano come spezzoni casuali e buttati giù (il mostriciattolo elettroacustico di “Dogsblood Redemption”, l’arabesco alla Boards Of Canada di “Bleached World”).

Da una connessione, per la verità velata, con l’arcinota raccolta di Baudelaire - e di rimando con Leo Ferrè - un album di scintillante sperimentazione, vorace nelle tattiche (da quelle analogiche alle ultimissime digitali), prenditutto anche nel suono, dall’alto potenziale avanguardista, e in fondo sprecato. Troppa frammentazione, numeri e momenti a compartimenti stagni piuttosto simili tra loro, al contempo non comunicanti. Lo si riascolta? Sì, ma non così volentieri: manca un aggancio che spinga oltre la pura e semplice fascinazione. Un Keith Fullerton Whitman minore (ma viene in mente anche certo Leaftcutter John).
Primo suo disco edito dalla sua personale Halcyon Veil, a due anni dalla fondazione.

21/11/2017

Tracklist

  1. Possessed
  2. Bleached World
  3. Roach
  4. Ontological Graffiti
  5. Dogsblood Redemption
  6. Prayer
  7. The Whole Bag
  8. Humanitys Daughter
  9. Rosy Cross
  10. Ontological II
  11. Prayer II (Gemme)
  12. Elevation

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