Quando metti un disco e sei costretto a controllare di aver fatto partire quello giusto, sei sicuro che ti trovi in uno degli scenari estremi possibili nell’evoluzione artistica di un cantautore: semplicemente, il meglio o il peggio. Ralegh Long ha scelto di dare alla sua musica una veste più da band, un classico quartetto rock, ma soprattutto alle sue canzoni una veste, come si può dire, dal gusto un po’ liso, come se fosse il disco un po’ nostalgico e vagamente “indie” di un Mick Hucknall dei Simply Red (l’iniziale, radiofonica “Take Your Mind Back”, “Take It”).
Arrangiamenti e produzione ricalcano questo canovaccio, con una strana piattezza, e con scelte clamorosamente “classiche”, come l’onnipresente slide, gli accordi elettrici in sottofondo, lo stoppato dell’acustica (la title track), lo schema ritmico e il sound di batteria più convenzionali che si possano pensare, evocando un’estetica “estiva” d’altri tempi (nel senso che prevale l'odore di antitarme), da oziosa compilation anni Novanta, o da bignami d’Americana radiofonico.
Davvero una mutazione sorprendente anche per uno nato con riferimenti molto classici (Nick Drake, Beatles, Randy Newman etc.) ma con un disco di ben altro tenore e spessore. Se lo conoscete, dovrete riascoltarlo per convincervi di stare parlando della stessa persona.
È anche e soprattutto la mutazione nel gusto della scrittura melodica, qui alla perenne ricerca dell’hook accalappiatore, del refrain facile e un po’ scadente (culminante nella stolido inno springsteeniano finale, “Home”), che lascia in bocca il ricordo di tutto e niente. Il prodotto forse di un’insolazione passeggera, non ci sono molte altre spiegazioni.
07/07/2017