Shannon Wright

Division

2017 (Vicious Circle)
art-rock, songwriter

Se c'è una musicista contemporanea che ha fatto della visceralità il suo faro nella notte, che ha riversato se stessa senza alcun filtro all'interno della sua corposa produzione discografica, quella è senz'altro Shannon Wright. Tra chitarre abrasive, come nella migliore tradizione hardcore, e agili composizioni al pianoforte, l'ormai ventennale percorso artistico dell'artista di Jacksonville l'ha vista testimone, con fortune alterne ma un'attitudine sempre priva di compromessi, di un approccio tra i più sanguigni e vitali del cantautorato rock mondiale, che nell'accoppiata "Let In The Light"-"Honeybee Girls" ha raggiunto eccellenti apici espressivi. Eppure, sembrava che questa straordinaria irruenza creativa fosse arrivata al suo capolinea: certo, la maternità indubbiamente ha rallentato il processo e l'ispirazione, tuttavia il cammino che ha portato all'ideazione di "Division" è stato costellato anche da eventi e situazioni decisamente meno liete, tra cui ripensamenti sulla prosecuzione della carriera e un generale senso di insicurezza nei confronti del mondo. Ci è voluto il coinvolgimento di amici e collaboratori, per far sì che questo iato insolitamente lungo avesse fine e vedesse quindi la luce il nono album solista di Wright (composto tra Roma e Parigi), album tra i più peculiari e compositi nel suo ricco canzoniere, nonché ennesimo punto di svolta in un corpo stilistico in costante evoluzione, netta espressione dell'inquietudine e del trasporto che non cessano di informare la potente inventiva dell'autrice. Tra tutte quelle possibili, questa è stata senz'altro una delle svolte più sorprendenti.

Non che Shannon Wright non sia stata capace di preservare le trame dolenti e rabbiose della sua arte anche rinunciando a palesi scariche elettriche e declinazioni rumoriste, tuttavia mai come in "Division" (un titolo che è tutto un programma) si riesce ad apprezzare un dolore così totalizzante, un affanno figlio di una vulnerabilità che non lascia scampo, anzi si tramuta in un'angoscia insopprimibile, in una sofferenza che sintetizza al meglio i dissidi interiori vissuti in prima persona dalla musicista. Proprio per questo alone di fragilità che permea in maniera costante tutto il lavoro (e che si riflette straordinariamente bene nelle interpretazioni spezzate della cantautrice), la decisione di sopprimere quasi del tutto le chitarre a vantaggio di pianoforte, organi, tastiere e viola da gamba acuisce ulteriormente le spiccate qualità emotive del nuovo ciclo di composizioni, in cui la libertà di sperimentazione è più alta che mai.
Là dove le sei corde continuano a impreziosire con il loro contributo, il risultato è comunque tutt'altro che scontato: nella title track, posta strategicamente in apertura, il commento droneggiante di elettrica, ad esempio, intensifica a dismisura l'afflato industrial dell'arrangiamento, nonché la dolente interpretazione dell'autrice, quasi una propaggine vocale del martellare opprimente che accompagna la canzone. Il Wurlitzer dal tocco cameristico di "Wayward" introduce invece una composizione in lento divenire, in cui le note si susseguono in un crescendo sempre più spiritato, attorno al quale si innestano sparsi echi elettronici mandati in loop e un finale dal superbo progredire doom, a marcare l'incostanza che dà il titolo al brano.

Non che altrove il tono sia più solare o rilassato: al massimo il mood si stempera in un'afflitta malinconia, un dolore sottaciuto ma comunque sempre presente, da cui è sostanzialmente inutile rifuggire. In "Seemingly" un pianoforte distorto a simulare i carillon di cristallo di Colleen viene utilizzato come supporto pressoché esclusivo della voce insolitamente candida di Wright, "sporcato" giusto da un ruvido contesto scenografico di fondo, in "Iodine", invece, la strada prende la via di un blues luciferino e dalle lievi increspature psichedeliche, sfruttando un ostinato melodico che accentua la carica sinistra del pezzo. Quando poi il percorso incrocia sentieri più smaccatamente dark, la convinzione con cui la musicista si addentra nei cunicoli della gotica contemporanea ha pochi eguali.
"The Thirst" filtra e smussa le asperità della linea vocale, lasciando che sia il contesto sonoro a dipingere pennellate minacciose, tra rallentamenti doom ancora più poderosi, batteria impetuosa e tastiere dal taglio allucinato, che operano in contrasto e allo stesso tempo in sintesi rispetto alla nostalgica linea cameristica del pianoforte. La conclusiva "Lighthouse (Drag Us In)" porta quindi il discorso neoclassico alle estreme conseguenze, con la viola da gamba di David Chalmin ad affondare il colpo finale innestando un vigoroso valzer su uno scheletro principale che rimanda al fascino eterno dei notturni chopiniani, resi ancora più vividi da un'interpretazione diafana e fantasmatica come mai prima d'ora, di quelle che tante eroine dark ancora non sono riuscite a maneggiare.

Se è vero che la pioggia nera ha continuato, nonostante le preghiere, a battere sul cammino di Shannon Wright, nondimeno la sua arte non ne ha risentito, anzi ne ha tratto profonda ispirazione, per un disco lancinante e che non fa sconti, teso comunque alla massima economia emotiva e sonora, senza ridondanze che ne fiacchino la potenza espressiva. Se comunque l'autrice pare aver sorpassato i problemi che ne hanno frenato la spinta produttiva, nondimeno "Division" rimane la testimonianza più lucida e urgente di un'impasse creativa superata appropriandosene dal punto di vista musicale, che ha fruttato uno dei momenti più importanti nella sua lunga carriera. Se questo sarà il trampolino di lancio per un'esplorazione ancora più convinta dei suoi tratti più oscuri, sarà il futuro a stabilirlo, ciò non toglie che il nuovo profilo estetico della musicista ne descrive con slancio rafforzato quelle caratteristiche che da sempre costituiscono l'ossatura della sua arte. Questo è un dato tutt'altro che da sottovalutare.

09/09/2017

Tracklist

  1. Division
  2. The Thirst
  3. Wayward
  4. Accidental
  5. Seemingly
  6. Soft Noise
  7. Iodine
  8. Lighthouse (Drag Us In)


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