Uno degli eventi mediatico-musicali più incomprensibili degli ultimi anni è quello del successo planetario della band del Michigan, i Greta Van Fleet. Il quartetto, composto dai fratelli Joshua e Jacob Kiszka, da Samuel J. Kiszka e Daniel Wagner, è stato capace - tra ospitate nelle principali trasmissioni televisive mainstream, centinaia di milioni (!) di visualizzazioni dei loro video su YouTube, palazzetti pieni e partecipazioni a vari festival in ogni parte del mondo - di essere salutato dai siti musicali mainstream (anche italiani) addirittura come la nuova speranza del rock.
Spinti mediaticamente dalle cannonate di una pubblicità senza limiti, ospiti quasi fissi dell’americana Fox Tv, con partecipazioni ai Grammy Awards, i Greta Van Fleet rappresentano uno dei tentativi - studiati a tavolino - di revival del classico rock anni 70 più retrivo e conservatore che a memoria si ricordi (il classico peccato mortale: trasformare un movimento di ribellione giovanile in mainstream), tanto osceni nel loro derivatismo da far sembrare una band come gli Strokes - anch’essi creati in “laboratorio” per aprire nuove fette di mercato discografico, ma pur sempre autori di un esordio più che dignitoso - paladini dell’alternative rock. Si può dire che i nostri siano epigoni dei Led Zeppelin (che a loro volta prendevano a piene mani dal blues americano) ma probabilmente l’accostamento più adatto è quello col primo album dei canadesi Rush (quello meno progressive). Ma se i Led Zeppelin prendevano indubbiamente da brani di altri musicisti per conferirgli nuova vita e nuovo vigore, rendendoli in certo senso propri, quello dei Greta Van Fleet è un revivalismo ottuso, che non ha alcuna paura di cadere nel ridicolo e che offende il significato stesso della parola epigono (che di per sé avrebbe una sua dignità).
Il rock è sempre stato terreno di "eterni ritorni", di influenze che si ripetono e di generi che rinascono dalle ceneri del tempo, ma qui siamo al calcolo puro di una band acchiappa-click, di quattro ragazzi che utilizzano le loro doti tecniche (senz’altro presenti) per uccidere il senso stesso della parola rock, quel senso di ribellione o di ricerca introspettiva che dovrebbe essere insito nella musica giovanile. Tanto identici nei suoni, finanche nell’abbigliamento, che il loro Lp d’esordio “Anthem Of The Peaceful Army” (prima avevano registrato due Ep) è molto più vicino all’idea di carnevalata che di album.
I Greta Van Fleet non rischiano nulla, vendono quello che la gente vuole comprare, suonano quello che - chi pensa che il rock sia morto coi Led Zeppelin - vuole sentire. Facendo questo, contribuiscono a mitragliate a uccidere la vera anima della musica giovanile, loro vecchissimi con sembianze di ragazzini, mummie travestite da Robert Plant e Jimmy Page. Sperando che il fenomeno (mediatico) sia passeggero (cosa prevedibile), si può essere certi che il rock gli sopravviverà, certamente lo farà nei piccoli locali, lontano da palazzetti o stadi. Qualche brano potrebbe funzionare più di altri, ma la totale assenza di sincerità di questo progetto rende inutile citarne uno piuttosto che un altro.
01/01/2019