Charlottesville. Virginia. Lei è Juliana Daugherty: figlia di due musicisti (un trombettista e una violinista), cantautrice al suo esordio per la Western Vinyl.
Il suo album, “Light”, accorda folk e indie-rock, ma non chiamatela
folksinger.
Lo spirito malinconico che pervade le tristi e solitarie canzoni della cantautrice americana è asservito a tematiche urbane. C’è un’insana urgenza dietro le dolorose ed eteree melodie: non è infatti il candore e la serenità delle campagne ad ispirare le canzoni di “Light”, ma quella funesta spada di Damocle che volteggia sulla civiltà moderna: la depressione.
Non a caso gli accordi del primo brano, “Player”, non lasciano adito a errori d’interpretazione. L’universo intimo ed emotivo della Daugherty è più vicino al rauco romanticismo di
Angel Olsen o
Lucy Dacus. Nei frangenti più delicati s’intravede perfino un tocco
noir e
on the road che non dispiacerebbe a
Lana Del Rey (“Baby Teeth”).
E poi c’è la voce: educata, colta, ricca di modulazioni perfette anche per il jazz o il blues, a volte commovente (“Sweetheart”), spesso discreta e inquieta (“Bliss”).
Quando poi incrocia accordi solitari e aspri (“Revelation”) tocca l’anima come la punta di un coltello arroventato, tirando fuori tutta la solitudine e il sopito rancore.
Gli scenari sonori sono sempre essenziali: a volte primeggia il suono sordo dei tamburi (“Player”, “Light”), le chitarre emergono senza travolgere (”Baby Teeth”, “Revelation”), il piano tratteggia i toni più cupi ed elaborati (“Light”), non di rado l’elettronica aggiunge un velato pathos (“Sweetheart”, “Come For Me”), arrivando perfino a stravolgere il
mood emotivo con un
uptempo che sembra sbucare dalle
session di “
Blue” (“Easier”).
Difficile dire se Juliana Daugherty lascerà un segno indelebile in questo affollato anno di ottime
performance femminili; di sicuro “Light” evita la prevedibilità di molte autrici folk, prima con l’asimmetrica armonia della
title track, che non sfigurerebbe nel repertorio di
Kari Bremnes, poi scivolando ancor più nel mistero e nell’oscurità con l’evanescente “Come For Me”.
Nel tentativo di far affiorare sentimenti e paure nascoste, l’autrice rivela più di quanto sia lecito attendersi, sconvolgendo con dissonanze armoniche l’apparente calma di “California” e prosciugando di qualsiasi impatto emotivo lo straziato e straziante cantato di “Wave”. Ed è grazie a questa manifesta vulnerabilità che riesce a creare un reale contatto psichico con l’ascoltatore: dolore, paura e depressione diventano vibrazioni, suoni, parole, cosi reali e cosi vicine, ma forse non più invincibili.