Non sarà niente di particolarmente inedito, specie se si considera che il progetto arriva a rimpinguare una nicchia espressiva già ben caratterizzata (Ramzi e Don't DJ i nomi più conosciuti nell'ambito), l'inventiva nell'elaborazione e la precisione nell'esecuzione premiano però innegabilmente gli sforzi del musicista, già da ora padrone di un linguaggio riconoscibile e ben caratterizzato. Minimalista, ma dalle variegate direttrici stilistiche (tribal-ambient, scuola berlinese, electro, house), il lavoro si pone tra le più avvincenti musi-geografie impossibili degli ultimi tempi, una perlustrazione nei minimi dettagli di un ambiente strutturato ed evocato con grande accuratezza. Il viaggio è servito.
Poco importa che tutto sia un enigma, che i titoli rechino i tratti di lingue impronunciabili, probabilmente anche inintelligibili: la riconoscibilità lessicale è una convenzione che poco interessa a Kilchhofer, è un orpello che può essere tranquillamente sacrificato, per un disegno generale che della parola riesce a fare volentieri a meno. Non si tratta comunque di un'avventura nell'ignoto, di un vagare senza meta in territori ostili: attraverso un uso mirato dei suoi sintetizzatori modulari, dei pattern ritmici, di tenui lineamenti melodici, il produttore invita a scoprire il suo universo con gentilezza e tatto, senza fretta o particolari cappelli introduttivi.
Un po' una fiaba, un po' una libreria di emozioni, a parafrasare i brevi commenti lasciati dal musicista, “The Book Room” offre un ampio spaccato di ambientazioni e scorci, un racconto, fantastico ma allo stesso tempo così tangibile, disperso tra felci e alberi secolari, refoli di vento e cascate, villaggi sperduti e animali selvatici, con tutta la soluzione di continuità necessaria a un'immersione quanto più efficace nel contesto.
È un resoconto fresco, vitale, che non teme aperture ballabili, ma che allo stesso tempo non ha paura di rinunciare a qualsiasi compromesso pseudo-etnografico e mostrare da subito la sua natura fittizia, la lontananza da ogni effettivo riferimento culturale.
Sintetizzatori, fatti risuonare con lo stesso spirito evocativo dei grandi pionieri elettronici (i Harmonia in primo luogo, a loro modo pure i Between) si alternano o convivono con tratteggi percussivi dal tocco primitivista (anche qui, poco importa che perlopiù sia tutto costruito in fase di produzione). Tracciati microhouse e accenni glitch diventano quindi parte integrante di disegni volta per volta diversi, che cangiano rapidamente da più spediti passaggi ritmici a più distese riflessioni atmosferiche, in cui lasciarsi pervadere dalla forza della natura circostante. È anche per questo che operare una cernita di brani, in questo lungo manifesto della verosimiglianza, appare tutto sommato inutile.
Pur nella sua lunghezza non indifferente, il lavoro va preso nel suo insieme, apprezzato nel suo accogliente abbraccio, nel suo vagabondare senza meta, alla ricerca delle piccole-grandi differenze su cui poggiare la nostra attenzione. Solo in questo modo si può assaporare a pieno la fervida cosmogonia di Kilchhofer, la creatività di un produttore che con mano sapiente confonde i limiti tra possibile e artificiale. Chissà quanti altri mondi sarà capace di schiudere...
(14/11/2018)