Nel 2003, anno di pubblicazione di “Old World Underground, Where Are You Now?”, i canadesi Metric offrirono all’attenzione della stampa e della scena indie globale un’interessante miscela di chitarre e sintetizzatori, che lavorando all’unisono disegnavano scintillanti e vivaci scenari di pop futuristico. Il disco fu un discreto successo e fece della band di Emily Haines e James Shaw un’intrigante promessa. Che oggi, dopo quindici anni e sette – con questo “Art Of Doubt” - dischi, possiamo definitivamente archiviare come non mantenuta, eccezion fatta per qualche sprazzo qua e là, su tutti il gran bel “Fantasies” del 2009. E pensare che quando i Metric, con l’ausilio dello scafato Howard Shore, intorbidirono il proprio suono per la colonna sonora dell’algido “Cosmopolis” di David Cronenberg, lasciarono immaginare una profondità inedita, ma – ahinoi - mai più sondata.
L’inizio di “Art Of Doubt” è anche interessante: la voce della Haines è sempre un bel sentire, specie quando rimane contratta e scattante, e la produzione è sfavillante e precisa. Quando i pezzi si mantengono su un coefficiente di cattiveria abbastanza elevato, l’attenzione rimane alta. “Dark Saturday”, animata da un sintetizzatore fibrillante e dalla ritmica squadrata del batterista Joules Scott-Key, sfodera finanche un discreto ritornello da stadio; lo stesso vale per “Die Happy”, che parte come un synth-pop alla Blondie e finisce con una chitarra cibernetica che serpeggia pesante come la coda di Godzilla. Ma questo è purtroppo quasi tutto. Non fosse per la schitarrata supersonica dell’arrembante “Dressed To Suppress”, piazzata – viene da dire provvidenzialmente - a metà scaletta per svegliare chi nel frattempo si era addormentato, il resto del disco è semplicemente noioso: pura mediocrità elettropop anni Zero. La parte finale del disco poi, aperta dall’insostenibile “Seven Rules” – praticamente una fattoria del latte alle ginocchia - e chiusa un pelino meglio da “No Lights On The Horizon”, è un insopportabile coacervo di lunghe ballad da prom di periferia.
Non aiuta la titanica lunghezza di cinquantotto minuti, una roba giustificabile soltanto in presenza di grande ispirazione – e non è questo il caso, ma magari alla MMI/Crystal Math Music non se ne è accorto nessuno. Duole constatarlo, ma la china imboccata dalla band nel 2015, con il già scialbo “Pagans In Vegas” del 2015, raggiunge oggi nuove, preoccupanti profondità.
01/10/2018