Quando un annetto fa avevamo azzardato che “Memory Of A Cut Off Head” avrebbe rappresentato niente più che una digressione interlocutoria nell’avventura degli Oh Sees, eravamo stati profeti fin troppo facili. A dimostrarlo in modo inequivocabile provvede l’annuale dispaccio su Castle Face della ghenga capitanata da John Dwyer, “Smote Reverser”, ventunesimo capitolo di una discografia sin qui pressoché ineccepibile. Un modo per alzare la posta, ad album metabolizzato, sarebbe pronosticare come imminente la sempre vagheggiata collaborazione tra il leader indiscusso dei californiani e Ty Segall, visto che mai come ora gli sviluppi e la natura incontaminata della loro musica presentano analogie preziose.
Confermato quasi per intero il manipolo di tecnici di “Orc”, con il solo golden boy di Laguna Beach rimpiazzato da Mario Ramirez (già con Swans e Brand New) accanto ai fidati Enrique Tena Padilla e Eric Bauer, la grande novità è rappresentata a questo giro dall’innesto del tastierista dei Froth, Tomas Dolas, praticamente il quinto membro del gruppo, oltre all’avvicendamento del copertinista Robert Beatty con un grafico più orientato al pulp sci-fi, Matthew Stawicki, così da arginare le spinte prog della parte musicale, assecondando nel contempo le pur occasionali animazioni proto-metal.
Il garage strafottente e sgangherato degli esordi è un ricordo remotissimo, ma anche il rock psichedelico dwyeriano si è evoluto in maniera profonda, aprendosi alle contaminazioni e lasciando margini sempre più significativi all’improvvisazione. La band presenta ora le sembianze di una bestia che si muova massiccia a velocità diseguali e che alterni asprezze piuttosto essenziali, tortuose derive magmatiche e labirinti progressivi peraltro mai banalmente inclini all’elefantiasi o alla necrofilia di un revival fine a se stesso. John si diletta con le costruzioni metodiche e ritornanti per poi tradurle (e tradirle) nelle consuete scorribande brade di matrice semplicemente rock, traendo il massimo impulso possibile dalla contraddizione solo apparente.
Ad arricchire un sound al solito granitico e acuminato è questa volta l’organo di Dolas, per lunghi tratti eletto a coprotagonista ma assai lontano da quello floreale e prossimo al caricaturismo lisergico che ai bei tempi portava in dote Brigid Dawson, confermata sì ma solo ai cori. Per quanto si sente in una “Enrique El Cobrador” sembra più corretto parlare di spina dorsale, dell’innervatura di un disco che suona assai meno chitarristicamente efferato dei suoi predecessori, mentre sul piano del massimalismo ritmico e percussivo non intende rinunciare a nulla. Non che la creatura di Dwyer abdichi per forza alla pesantezza, tutt’altro. Le esplorazioni appaiono svagate e giocose come non mai (“C”, l’arioso filler “Flies Bump Against the Glass”), e il frizzante groove seventies regalato dalle tastiere segna una riscossa rispetto al passato, tutta giocata nel segno della leggerezza (la stessa che muove il capobanda nelle sue ormai irrinunciabili uscite con il moniker Damaged Bug).
I moloch rumorosi fatti di assalti terroristi degni dei trascorsi punk con i Coachwhips non mancano – lo dimostrano il singolo battistrada “Overthrown” e la tonitruante eloquenza di “Abysmal Urn”, dove il frontman ritrova tutta la brillantezza del suo canone – ma la variante dura e pura resta opzione minoritaria come gustoso diversivo, magnificamente approntato dalla spietata coppia Rincon/Quattrone dietro i rullanti. Allo stesso modo sopravvivono dentro “Moon Bog” i barocchismi di ieri, in quell’irriducibile stravaganza, fumosa quanto si vuole eppure inesorabilmente stimolante nella sua vitalità, tra fragile calligrafia, tono muscolare robusto e l’immancabile, guizzante gigionismo di sempre.
Un altro esempio è offerto dal (presunto) rallentamento psych-ipnotico di “Last Peace”, ostentatamente d’atmosfera e acidulo à-la Bevis Frond, specie per come si lasci stravolgere da ridondanze kraute e iperboli space-rock. Inevitabilmente più sfilacciato e dispersivo è invece il nuovo mostro, “Anthemic Aggressor”, parente stretto degli incubi domestici del progetto solista ma non per questo privo di una sua coerenza rispetto al disegno d’insieme: solo un’altra faccia, magari anche la più appariscente, dell’incontenibile libertà espressiva che anima tutte le ultime produzioni di Dwyer, sbrindellate (e talvolta compiaciute) fino all’eccesso, ma in fondo sempre squisitamente personali.
In piena fantasmagoria, il Nostro non sconfessa insomma la predilezione per la forma e per il gigantismo, prerogative estetiche che solo l’originalità della sua scrittura oltre all’indomita libertà del suo genio hanno modo di tradurre in motivi di interesse. Il suono è spettacolare senza riuscire artefatto, le centrifughe non risparmiano nulla, l’istrionismo si conferma visionario ma complice e le tentazioni virtuose sono tenute alla briglia da una sporcizia sempre opportuna. Ondivaghi ed elusivi, ispidi e brutali, persino estetizzanti in un finale ruffiano e crepuscolare che omaggia i Pink Floyd alla maniera dei Besnard Lakes sovraccarichi di qualche stagione fa, gli Oh Sees regalano così l’ennesimo gioiello bastardo di una carriera straordinariamente prolifica e regolare, almeno in quanto a garanzie offerte, l’ultimo grano in un rosario di album gargantueschi, eclettici e inessenziali, in una parola godibilissimi.
19/09/2018