Thy Catafalque

Geometria

2018 (Season Of Mist)
progressive-metal, art-rock, elettronica

E anche Thy Catafalque, il progetto di Tamás Kátai, giunge finalmente alla sua completa maturazione. Non che nel mentre la one-man band del musicista ungherese (fino al 2011 gestita però in compagnia di Juhász János) non abbia dato prova di quale pasta sia fatta, tuttavia è solo con “Geometria”, l'ottavo album, che la peculiare cifra stilistica del suo autore perviene a un pieno sviluppo delle proprie potenzialità, sfociando nel primo vero grande disco di una formazione dalla lunga esperienza e dalla consolidata consistenza, ancora però incapace della zampata decisiva.
Valeva la pena attendere, ad ogni modo, dacché con quest'ultimo lavoro tutti i tasselli di un'estetica composita e priva di veri raffronti (l'unico termine di paragone è quello con gli ultimi Lux Occulta, formidabile combo sperimentale polacco) splendono in tutto il loro rigoglio, donando all'impressionante combinazione di black-metal, progressive-rock, elettronica e folk magiaro spessore e dinamica del tutto rinnovati, che le consentono da ultimo di manifestarsi con quell'intensità a lungo desiderata. In un ciclo di undici brani che si susseguono col fare di una suite d'altri tempi, Kátai individua il veicolo espressivo a sé più congeniale.

C'è chi ha parlato di “Geometria” come del disco meno metal in assoluto nell'arco del ventennale percorso di Thy Catafalque, e in effetti l'affermazione presenta qualche fondo di verità. Se paragonato in particolare all'assalto sonico del precedente “Meta”, che ha avvicinato l'arte di Kátai alla moderna convenzione black-metal (per quanto opportunamente ibridato ed eterodosso), in effetti il discorso regge alla perfezione, tanto che è soltanto con il secondo brano, “Szamojéd freskó”, che si apprezza un deciso ritorno alla matrice più dura e d'impatto del progetto.
È già dai tempi di “Tűnő idő tárlat” (2004) che la band ha gradualmente stemperato l'impianto granitico del suo sound iniziale, a favore di una più consistente ricchezza timbrica e compositiva, tale da far evolvere il progetto in una chiara direzione progressiva. Da questo punto di vista, l'ultimo album non è altro che la tappa conclusiva di un percorso iniziato molto tempo addietro, che qui trova la sua effettiva estrinsecazione, dopo essersi rinvigorito di pubblicazione in pubblicazione.
Con un carnet di collaboratori di eccellente statura (Martina Veronika Horváth e Gyula Vásvari alle voci, Misha Doumnov al violino) la visione di Kátai conquista e seduce, pur rinunciando a molta della durezza che ne ha costituito la fortuna più recente.

Proprio per la loro natura più episodica, i momenti in cui il lavoro pende verso il lato metallico della proposta risaltano in tutta la loro potenza, spezzando con strappi netti la relativa calma della restante opera. Dando sempre prova di grande gestione e conoscenza dell'ambito, Kátai escogita per l'occasione composizioni dalla natura mutevole e dalla struttura ibrida, dall'impatto sì imponente ma allo stesso tempo profondamente atmosferico, in linea con le suggestioni derivanti dai molti collaboratori. Il posizionamento della già menzionata “Szamojéd freskó”, dagli evidenti sottotoni prog, immediatamente dopo la lunga dissertazione electro-jazz d'apertura di “Hajnali csillag” (reminiscente della Cinematic Orchestra o del primo Bersarin Quartett), esalta a dismisura il granitico effetto delle chitarre, che riportano alle muraglie soniche delle due prove precedenti.

“Sárember”, pur con un impianto chitarristico di notevole densità, volge invece verso territori più malinconici e folk, in virtù di una melodia dai rimandi tradizionali e di struggenti contributi di violino, agili come quelli di una ciarda. Se quindi “Lágyresz”, di nuovo prossima a un black-metal più ortodosso, scopre il fianco a uno scream usato comunque con la dovuta parsimonia (che rende però ben conto della grande duttilità vocale dell'autore), “Sík” appiana i toni più abrasivi della precedente a favore di arrangiamenti dal tono più poetico, con i contributi di elettronica ad addolcirne il trasporto.

Tra partiture sintetiche dal sapore techno, piegate però a esigenze di scrittura ben più tradizionali (l'esperimento synth-folk “Hajó”, la più popolare “Tenger, tenger”), intricati equilibri a cavallo tra jazz e psichedelia, coadiuvati da intelligenti manipolazioni produttive (il complesso groove dal sapore floydiano di “Gőte”), ballate neofolk destrutturate in chiave sludge (la lunga “Ének a búzamezőkről”), il compositore ungherese dà piena prova del suo raffinato eclettismo, di un linguaggio che trascende generi e appartenenze, scavando con successo una sua nicchia specifica.
Lascerà probabilmente insoddisfatti chi da progetti del genere richiede maggiore “sporcizia” e fascino oscuro; anche così, quel che è certo è che Tamás Kátai è artefice di una delle formule espressive più peculiari del metal contemporaneo.

20/12/2018

Tracklist

  1. Hajnali csillag
  2. Szamojéd freskó
  3. Töltés
  4. Gőte
  5. Sárember
  6. Hajó
  7. Lágyrész
  8. Sík
  9. Balra a nap
  10. Tenger, tenger
  11. Ének a búzamezőkről


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