Alcuni dischi è bene apprezzarli se non altro per le riflessioni a cui conducono. Tra le poche qualità di "The Outsider In The Mirrors" c'è infatti quella di portare l’ascoltatore a domandarsi come mai certi vecchi album sappiano resistere al deterioramento del tempo, mentre altri, come gli pseudo-cloni che negli ultimi vent'anni si sono materializzati a immagine e somiglianza dei loro progenitori, hanno iniziato a odorare di muffa sin dal loro primo vagito. Che cosa rende un album "immortale"? E da dove nasce questa fissazione per il passato?
L’atteggiamento conservatore e la frequente atrofia creativa che affliggono l’era corrente sono infatti i principali responsabili dell'enorme paccottiglia di album "ecologici", ossessionati dal riciclaggio e con lo sguardo rivolto al passato, che dalla fine degli anni '90 non smettono di assillarci. Ma non è questa la sede per discuterne in modo approfondito.
Riguardo a "The Outsider In The Mirrors", purtroppo, non c'è granché da dire: Soft Riot ha incollato sul suo disco gli stessi suoni spettrali ed elettronici usati già in larga quantità da John Foxx, Gary Numan, Omd e simili, facendoli collidere con i battiti pesanti dell'Ebm. Per farla breve, "The Outsider In The Mirrors" non sarà magari quel genere di prodotto che Julian Cope definirebbe utile solo a "puntellare un tavolino traballante", ma di certo non regge il confronto con i suoi predecessori – d'altronde, quale altro disco potrebbe?
È improbabile tuttavia che Soft Riot avesse intenzioni radicali quando compose "The Outsider In The Mirrors": ri-creare quel susseguirsi fantasioso di superfici angolari, scenari tenebrosi e apparizioni fantasma proprio della darkwave, collocandosi al confine tra plagio e citazionismo, sembrerebbe essere il solo scopo del musicista. Questo atteggiamento, però, lubrifica il ricordo dell’ascoltatore facendo scattare nella sua mente il giogo mortale del confronto: è quasi fastidioso il modo in cui "The Outsider In The Mirrors" ammicca al passatismo scimmiottando ridicolmente le movenze dell'elettronica 80's, recidendo le qualità futuristiche e fantascientifiche che gli erano proprie.
Soft Riot tenta così il suicidio proponendo un pasticcio che non ha né la minuzia compositiva né l’ampio respiro delle opere da cui attinge e che rimanda a quella "noia del già udito" e quella "monotonia delle sensazioni" a cui Luigi Russolo accennava nel 1913 [1].
21/02/2018