Già autore, nell’esordio di tre anni fa, di un soul iconico, Durand Jones torna con un disco che si può definire, nel bene e nel male, come impeccabile. Rifinito nei minimi particolari a rinverdire i fasti del soul anni 70, dalla batteria secca e percussiva alle grandi aperture d’archi (“Listen To Your Heart”), “American Love Call” si fonda prima di tutto sulla voce di Durand che, a dirla tutta, smuoverebbe un monolite.
Nonostante la canonicità degli arrangiamenti (ma anche delle melodie, in fin dei conti), è difficile rappresentare questo disco come un prodotto di maniera, perché si intuisce che un sottofondo d’istinto è comunque il primo movente della sua esistenza, anche al di là del vibrante incipit esistenzial-politico e panico “Morning In America”.
I testi, a parte questo inizio più “importante”, un “What’s Going On” rovesciato e pieno d’angoscia, ricalcano un canovaccio forse un po’ troppo stazzonato, a cominciare dai “giri d’amore” di “Circles”, uno dei brani più deboli del disco (insieme all’altra “serenata”, anch’essa un po’ didascalica, “True Love”). Interpretazione e arrangiamenti reggono da soli il palcoscenico, poi, in brani come “Walk Away”, in cui il contributo di scrittura è carente.
Al contempo, ci sono brani più strutturati e/o coinvolgenti, come il duetto in ritmo bossanova di “Sea Gets Hotter”, o come l’irresistibile cavalcata di “Long Way Home”. Al di là delle preferenze per questo o quel brano, il carattere generale di “American Love Call” rimane l’istintività, l’imporsi tout court della voce di Durand e l’intenzione messa dalla band nella riproposizione di un canone. Sulla scrittura, così come nell’esordio, rimangono ancora molti dubbi sulla reale capacità di fare più di un (ottimo) tributo.
11/03/2019