Gladie

Diciamo la verità: non è che Augusta Koch avesse impressionato molto nelle scorribande indie rock tutte al femminile delle Cayetana, né sentivamo la mancanza di un altro elenco di citazioni ingombranti, melodie impalpabili e riff insignificanti.
Il nuovo compagno di ventura, Matt Schimelfenig, ha dal canto suo già dato tutto il possibile nel dimenticato trio pop-punk/emo Three Man Cannon, riducendosi a mero supporto logistico di un disco che mette definitivamente a tacere i pregi del pop-rock lo-fi.

“Safe Sins” sarà ricordato più per le innumerevoli edizioni limitate in vinile colorato (viola, crema e di nuovo viola) che per una qualsiasi delle dieci canzoni. I testi sono pieni di rabbia e speranza, graffianti come una spugna consumata, mentre le melodie sono inesistenti. Questo, per precisione e correttezza, già caratterizzava le inutili incisioni delle Cayetana, ma l’inconsistenza delle canzoni dei Gladie non è una scelta stilistica, quanto il risultato dell’impossibilità dei due musicisti di mettere insieme più di due accordi che non siano rubati all’infinita lista di santini messi sul tavolo dello studio di registrazione.

Il brano d’apertura “Pray” e la conclusiva “Choose” sono le due tracce più morbide del lotto, e allo stesso tempo le uniche che sembrano avere una logica strutturale. Una debacle per un disco che dovrebbe in parte raccogliere l’eredità del riot rock al femminile che per anni ha inflazionato, con buone produzioni, il mercato americano. Anche il singolo “A Pace Far Different” sorride alla banalità del pop senza mai trovare una vera e propria direzione armonica, mentre le poche idee sparse nei meandri noiosi di “Safe Sins”, il riff iniziale di “Twenty Twenty” o il mood del synth in “Even At Your Easel” affogano in una melma sonora insipida che avrei preferito evitare, ma che almeno potrò far schivare a chi sta leggendo queste righe.

14/07/2020