Stile, classe, originalità e talento hanno da sempre contraddistinto le sorti degli emiliani
Sacri Cuori. L’intenso noir-western prevalentemente strumentale della band ha travalicato perfino i confini nostrani, raccogliendo numerosi encomi da parte delle critica internazionale. Non è dunque apparso strano ritrovarli al seguito di artisti come
Hugo Race, Dan Stuart,
Robyn Hitchcock,
Steve Wynn,
Marc Ribot e altri. Stessa sorte per Antonio Gramentieri,
alias Don Antonio, chitarrista della formazione alle prese con un secondo album solista, seguito di un acclamato
esordio e uno squisito album con Alejandro Escovedo (“
The Crossing”).
Coraggioso progetto che viaggia in sincrono con un libro, anch’esso intitolato “La Bella Stagione”, il nuovo disco di Don Antonio segna, per il musicista, un confine tra passato e presente. Per la prima volta l’artista si cala nel ruolo di cantautore a tutto tondo, pur conscio dei possibili rischi legati al ruolo di cantante, un gap che Gramentieri affronta con una consapevolezza e un po’ di azzardo, citando fatalmente
Lucio Battisti e
Rino Gaetano, e affidando alla forza narrativa, più che al bel canto, la magia di dieci piccole storie che hanno il fascino di altrettanti corti cinematografici.
Nessun timore: il formato canzone e il sorprendente uso della sola lingua italiana non inficiano il profilo artistico di Don Antonio. Anzi, sorprende la padronanza di strutture e tempi armonici più tipici di quel cantautorato influenzato dalle pulsioni country-blues-rock tipicamente americane. A partire proprio dal country-rock di “Batticuore”, un brano che scivola fluido e sicuro come si conviene a un singolo all'altezza del proprio ruolo di manifesto stilistico di un disco solido e convincente, anche le infiltrazioni dei synth sono sapienti e swinganti al punto giusto, contaminazioni elettroniche che diventano centro gravitazionale del brioso synth-pop di “Ponente”, brano che idealmente si pone a metà strada tra il
Battisti era-Panella e
Franco Battiato.
Gramentieri ha dichiarato che “La bella stagione” è un disco scandito dalla memoria del passato e dall'incidenza dello stesso sul presente, un passato che costringe a fare i conti con le illusioni e le speranze smarrite, ed è affidato alla melodia pianistica più tipicamente cantautorale del disco, “Adesso”, il compito di introdurne la malinconica forza riflessiva, con un gradevole richiamo alla tradizione di
Fossati e
De Gregori.
Lo svogliato blues di “Fuoco” e il dolente racconto folk-noir con archi, piano e percussioni al seguito del suggestivo
talkin'-blues di “Le prime stelle della sera”, sono senza dubbio gli episodi più vicini alle precedenti esperienze artistiche del chitarrista e nello stesso tempo mettono in evidenza una padronanza dei tempi lirici notevole.
E’ altresì un piacere scoprire il lato pop più sbarazzino di Don Antonio, non solo nell’evidente omaggio all’ironica giocosità di Rino Gaetano (“Capiscimi”), ma soprattutto nelle robotiche cadenze disco-rock dell’eccellente “Lo stesso”.
La verità è che un disco come “La bella stagione” ha tutte le carte in regola per rappresentare un vero e proprio evento, il perfetto equilibrio tra canzone d’autore (la
title track) e un surrealismo pop-beat anni 60 (“Ancora di me”) sono materia rara per il panorama nostrano, ancor di più lo è ritrovarsi tra le mani una di quelle poche canzoni destinate a superare una seduzione provvisoria, illusoria: la forza poetica di un brano come “Distanza” è di una rara intensità lirica e musicale, una ballata che incanta grazie a un testo che trasuda sangue sudore e lacrime e a un arrangiamento stagionato, sapiente, privo di sbavature o eccessi, caratterizzato da un suggestivo uso delle voci e dal suono languido della
pedal steel.
Nell’attesa di leggere il libro-racconto che completa l’opera del musicista emiliano, l’album di Don Antonio “La bella stagione” è non solo la conferma di un talento già noto, ma una sorpresa che smuove le torbide acque della musica italiana degli ultimi tempi.