Los Lobos

Native Sons

2021 (New West Records)
latin-rock, pop, country, r&b

“Solo un'altra band dall’est di Los Angeles che regala una manciata di canzoni alla sua città”: potrebbe essere questo il sottotitolo da apporre a “Native Sons”, diciassettesimo album dei Los Lobos. Un solo pezzo originale, la title track, e tredici cover scelte senza seguire alcun filo conduttore se non quello dei molti stili che sempre hanno reso unica la città californiana: il r&b, il rock’n’roll, il folk, la musica latina e il punk-rock, “il grande escluso dalla tracklist del disco”, ammette Steve Berlin, il più giovane del gruppo, sessantacinquenne sassofonista e produttore (non solo per i lupi, una delle sue ultime produzioni è “Alphabetland” degli X di John Doe). “Quel momento è stato influente per noi: quelle band, quelle persone e l'intera etica di aiutarsi lungo la strada. È come se l’avessimo sempre mantenuta nei nostri cuori”, continua Berlin parlando dei tempi in cui il gruppo muoveva i primi passi nel decennio 80 e la coetanea scena punk di LA li colse agli albori della loro mescolanza di guitarrón e Stratocaster. Arrivarono ad aprire per i post-punk Public Image Ltd. con un set di standard messicani acustici e la folla rispose con sputi, scherni e proiettili.

Fusioni di stili e attitudini che circolavano da decenni tra le strade di LA e che sono state alla base dell’attività del gruppo, iniziata nel 1978, proprio con un altro disco di cover, della tradizione centro-sudamericana però, “Los Lobos Del Este De Los Angeles (Just Another Band From East L.A.)”.
Qualche anno più tardi, nel 2019, in piena campagna elettorale Usa, con l’aiuto di dj, amici e un dropbox in comune, una delle poche concessioni alle ultime tecnologie, il quintetto ha messo insieme le canzoni di “Native Sons”. L’unica certezza: The Blasters, Thee Midniters e i WAR sarebbero stati della partita e ha iniziato le registrazioni con davanti un bel po' di date in programma. Chi l’avrebbe detto che l’avrebbero finito quasi due anni dopo tra tamponi, mascherine e nessun concerto? I Los Lobos non sono avvezzi alla tecnologia, Berlin racconta di averci provato inutilmente ad avvicinarceli per continuare le session e l’idea, poi, di inviarsi le parti online, la consuetudine in questi ultimi tempi (e non solo), non è stata neanche presa in considerazione. Meno male che lo studio messo a disposizione dalla label, New West Records (frequentato da artisti come Steve Earle, Pokey LaFarge e Drive-By Truckers), era grande e ben ventilato, ricorda ancora Steve Berlin.

Il disco si apre con un potente r&b, “Love Special Delivery”, con Carlos Rosas (l’uomo blues del gruppo, voce e seconda chitarra) a scandirne le rime, rimanendo fedele all’originale dei Thee Midniters, il primo gruppo chicano che riscosse successo in tutti gli States. Per chi è cresciuto a East LA nei 60, erano dei miti, sempre in tv e alla radio, al punto che i giovani che crescevano senza uscire da quella parte della città pensavano fossero più o meno equivalenti ai Rolling Stones e ai Beatles. Il fatto che fossero emersi dal loro stesso quartiere fu un’enorme spinta per aiutarli a credere nel loro progetto. “Misery” è di quel Barrett Strong che indovinò la prima hit della Motown nel 1960, la celebre “Money (That's What I Want)”, e che partecipò alla stesura di tante altre a venire. David Hidalgo (voce e prima chitarra) la canta rinforzando la cadenza soul del pezzo, gli stacchi sono accentuati, il beat accelerato, e un solo elettrico occupa le stesse battute dell’originale, suonato dal sax, con i cori femminili che scompaiono lasciando spazio alle voci mature dei compagni di band.

La doppietta “Bluebird”/“For What It’s Worth” riprende due tra i masterpiece dei Buffalo Springfield scritti da Stephen Stills, non apportando alcun cambiamento alle versioni originali, come avviene in gran parte dei pezzi dell’album. “Normalmente quando qualcuno fa un disco tributo, suona le sue versioni - dice Luis Pérez, (paroliere del gruppo, prima batteria e ora chitarrista ritmico) - noi non l'abbiamo fatto. Cerchiamo di suonare proprio come i dischi originali. Per noi questo è il vero tributo". Stesso trattamento, quindi, per “Jamaica Say You Will” dal primo Lp omonimo di Jackson Browne (1972), dove Perez canta una strofa mentre Hidalgo si occupa di tutto il resto. “In termini di songwriting, Browne è stato un'enorme influenza per Luis Perez”, dice Steve Berlin, “quando uscì quel primo disco, ricordo di aver pensato che non aveva nulla di Dylan, non era metaforico, ma aveva la capacità di raccontare una storia molto profonda con il linguaggio più semplice possibile, che è qualcosa che penso Louis abbia preso a cuore come cantautore”. Dalla discografia dei Beach Boys è invece tratta la meno conosciuta “Sail On Sailor”: Conrad Lozano (basso, guitarrón e voce) era irremovibile, voleva una canzone di Mike Love.

“Los Chucos Suaves” di Lalo Guerrero (ripresa anche da Ry Cooder in “Chávez Ravine” del 2005), insieme a “Dichoso” di Willie Bobo, l’altro pezzo latino suonato in “Native Sons”, sono agli antipodi dei successi pop mainstream precedenti. “Dichoso” risale all'epoca in cui la band suonava durante i matrimoni e la ripeteva anche due o tre volte a notte. Anche Guerrero è stato una grande influenza per il gruppo che ha inciso con lui un disco per bambini (“Papa's Dream”, 1995): “Era uno zoot-suiter”, ricorda Hidalgo citando l’abbigliamento maschile consistente in una lunga giacca a spalle molto larghe e pantaloni a vita altissima, che divenne molto popolare nelle comunità afroamericane, chicane, appunto, e italoamericane negli anni Quaranta. “Los Chucos Suaves”, suo capolavoro dell’età matura, racconta le vicende di su un quartiere scomparso di East LA.

Gli amati compagni The Blasters, che al principio degli anni 80 li misero in contatto con la Slash, la casa discografica che produsse tutti i loro primi Lp, vengono omaggiati con il rock’n’roll di “Flat Top Joint” (in “American Music”, 1980). “The World Is A Ghetto” arriva da un mitico gruppo funk degli anni 70, i WAR, mentre “Farmer John” è stata scelta per rendere omaggio a Don “Sugarcane” Harris (il padre del violino elettrificato, da John Mayall a Frank Zappa), che la suonava nel duo Don & Dewey, anche se la versione dei Lobos assomiglia di più a quella dei Thee Midniters, di nuovo il primo gruppo chicano a tessere i fili della memoria musicale dei nostri. La canzone è stata ripresa anche da Neil Young in “Ragged Glory” (1990) e già la suonava nel suo primo gruppo surf, The Squires.

“Never No More” di Percy Mayfield (cantante e compositore di temi come “Hit The Road Jack”) è un rapido r’n’b riproposto senza l’orchestra di fiati a reggerlo e con un Hammond sognante che ci fa precipitare ugualmente nell’epoca. “Where Lovers Go”, uno strumentale dei Jaguars (uno di primi gruppi doo wop degli anni 50 con una formazione interrazziale) chiude l’album e Hidalgo lo arricchisce con un solo da brividi che entra ruvido e cupo nella melodia retrò, allargandosi sulle note più basse per poi risalire sulle alte.
L’unico originale è “Native Sons”: la sua trama rock dalla melodia sognante nel miglior stile della West Coast, non può che farci ben sperare per il nuovo disco di inediti al quale i nostri si dedicheranno una volta terminata la rinnovata stagione concertistica.

15/08/2021

Tracklist

  1. Love Special Delivery
  2. Misery
  3. Bluebird/ For What It's Worth
  4. Los Chucos Suaves
  5. Jamaica Say You Will
  6. Never No More
  7. Native Son
  8. Farmer John
  9. Dichoso
  10. Sail On, Sailor
  11. The World Is A Ghetto
  12. Flat Top Joint
  13. Where Lovers Go

Los Lobos sul web