Mannarino

V

2021 (Polydor)
folk, world

Mannarino senza più vincoli

di Giovanni Benedetti

Strano periodo, quello del lockdown. Mentre la vita quotidiana di chiunque veniva improvvisamente stravolta e costipata, c'è stato chi si è limitato a subire le restrizioni e chi invece, con tenacia e vitalità, è riuscito a sfruttare la circostanza cogliendo l'opportunità per lavorare su sé stesso. Ed è a questa seconda categoria che, indubbiamente, appartiene Alessandro Mannarino. Dopo la pausa più lunga della sua carriera (ben quattro anni dall'ultimo "Apriti cielo"), l'ormai affermato cantautore romano è tornato con il suo disco più profondo, libero e catartico.

Per entrare nell'atmosfera di novità è sufficiente - con una piccola trasgressione alla famosa regola - guardare la copertina. È infatti la prima volta che l'artista non vi compare in prima persona. Al suo posto, campeggia orgogliosa una giovane donna di colore dallo sguardo penetrante, con indosso un coloratissimo passamontagna. Ma è ovviamente il contenuto, al di là delle apparenze, a riservare le maggiori e più gradite sorprese. L'album si apre con "Africa", già uscita a fine luglio come primo singolo. Il brano fonde armoniosamente una delicata intro acustica con un groove intenso e delicato allo stesso tempo, valorizzato appieno dal ritornello. La successiva "Congo", che unisce un testo recitato a sonorità etniche, rappresenta poi un cambio di direzione deciso ma mai forzato. "Cantaré" è invece un trascinante inno di resistenza, con un ritornello liberatorio da cantare a squarciagola.

A colpire maggiormente è la distanza, tanto in termini di suoni quanto di linguaggio, dai precedenti lavori di Mannarino. Se "Apriti cielo" con le sue influenze sudamericane aveva già rappresentato un nuovo capitolo per il musicista romano, "V" è a tutti gli effetti un passo in avanti ancora più audace, tanto da poter essere considerato, più che un continuo dell'album precedente, come un trionfo degli elementi di novità in esso accennati.
Le sonorità di "V" risultano calde e avvolgenti grazie a una consapevole scelta dei musicisti, dai collaboratori di vecchia data come Tony Canto e Simona Sciacca alle inaspettate new entries come Gioia Persichetti (voce in "Vagabunda") e il coro delle indigene Karuana di "Amazónica". I testi costituiscono invece l'elemento di maggiore novità, creando immagini evocative e aperte a differenti interpretazioni, in particolare nell'onirico uno-due di "Fiume Nero" e "Agua". La natura, le emozioni, e soprattutto l'immagine femminile emergono decisi protagonisti di questo viaggio.

Del Mannarino diretto e piacione di dieci anni prima c'è ben poco: giusto "Banca De New York" riprende vagamente quei toni. Anche "Ballabylonia", il pezzo più disimpegnato dell'album, fa ballare spensieratamente ma in modo più viscerale e meno automatico rispetto al passato. A questa segue poi "Bandida", uno dei brani più intensi dell'album, dove le dolcissime percussioni e la voce di Lavinia Mancusi sfociano nel coro del collettivo femminista "Las Tesis" accompagnato da un potente riff di chitarra elettrica.

Non venga però da pensare che "V" sia un album pesante. Anzi, scivola velocemente e porta con naturalezza ad ascolti successivi, probabilmente necessari per immergersi a fondo nel lavoro di un Mannarino che, fra Africa e Amazzonia, è riuscito a trovare la sua espressione di ribelle indomito ma poetico. E che, come canta nel brano che chiude il disco, ci fa sentire che non ha paura alcuna.

***

Un temerario giro del mondo

di Davide Sechi

O mare nero, o mare nero, o mare nero
tu eri chiaro e trasparente come me

Ehi, è un fiume nero, nero, nero, nero
Che torna in cielo
L'elemento liquido primigenio, il principio e la fine, la figura femminile sempre anelata, rifuggita, inseguita, ricatturata, rinsaldata, rifinita, in tempo per un nuovo episodio di riimmersione e riemersione. Alessandro come Lucio? Spiritualmente perché no, così da fugare subito ogni idea di accostamento artistico che potrebbe far sobbalzare gli acrobati iracondi dell'epoca social. Alessandro che prova la fuga, come il più grande fuggitivo della canzone italica. Scappa dalla sua stanza dei divertimenti, dal suo cantautorato logorroico e irriverente, dai giochi di parole e dal sarcasmo che le incornicia, dalla confidenza nata e cresciuta tra i vicoli di Roma, dalla sicurezza di uno status maturato in due lustri. Fugge ma mica dimentica, semmai allarga gli orizzonti mentali, sentimentali, geografici.

Tu vuo' fa' l'africano, il brasiliano, il terzomondista, qualcuno parlerebbe di aspirazioni di autenticità che magari si scontrano con realtà non appropriate, rabberciate, incollate male. Non è il caso di Mannarino che, partito per l'Africa, rispunta in Amazzonia e finisce per sintetizzare il suo giro del mondo in quel di New York, la metropoli meticcia per antonomasia. E fa centro. Cambiando le carte in tavola, senza gettare dalla finestra quelle dei precedenti poker, senza apparire didascalico, nonostante la platealità dei gesti, dei titoli, delle scenografie.
Confeziona una sorta di concept in tredici paragrafi sinuosi, misteriosi, morbidi, affascinanti, ovviamente ritmati, coadiuvati da innesti elettronici prima sconosciuti, sempre caldi, come nel synth che infilza l'opening track o il ponte verso di "Lei" e che somiglia al fretless al sapor di trombone di Bakithi Kumalo, ossia quando Paul Simon decise di mettere una tigre del motore e si trovò dentro tutta la giungla.

Alessandro rischia, quasi si sollazza a passeggiare sul famoso filo, ché le jovanottate son sempre dietro l'angolo ("Cantaré"), come pure i rimandi solitamente giudicati più prestigiosi all'esotismo di Manu Chao (la saltellante "Ballabylonia" tra l'amor chegou e l'amour toujours, lo scioglilingua corale di "Bandida", il passo di danza compassato di "Vagabunda" e le sue memorie di Chris Blackwell e Sly Dunbar), ma si salva consapevole di una grana vocale che lo fa sembrare un vecchio saggio reduce da ventimila leghe sotto e sopra i mari, che culla, che regala sicurezza, un tono da pirata buono, da uomo che non deve chiedere mai ma che ti tende sempre la mano.

Sono storie di donne, radice, fulcro, spinta, ragione di vita oltre la "Paura" personale, sociale, culturale, economica, piccolo manuale di speranza e autoconvincimento, ninna nanna finale e monito per ricominciare, dopo aver ascoltato i cori gospel delle indigene del Tapajos e avvertito i rintocchi dell'"Agua" sulle orme di Iracema, la sua battaglia per sovvertire un destino di sottomissione a culture imperialiste.
Mannarino scende su un campo rischioso, pieno di tranelli retorici, superficiali, ma dalla sua ha una leggerezza melodico-autoriale che lo tiene a galla. Così può finalmente guardare la "Luna", tra cori liturgici e ottoni orchestrali e sommessi e gridare V, come Vittoria.

09/10/2021

Tracklist

  1. Africa
  2. Congo
  3. Cantaré
  4. Fiume nero
  5. Agua
  6. Amazonica
  7. Banca de New York
  8. Vagabunda
  9. Ballabylonia
  10. Bandida
  11. Lei
  12. Luna

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