Nel panorama garage dell’inizio del secondo millennio i Sic Alps di Mike Donovan si distinsero agli esordi per uno stile cacofonico e ferocemente rumorista che li rendeva, se non del tutto originali, quantomeno interessanti e differenti dagli altri gruppi dello stesso genere. Col passare degli anni e degli album la band tendeva a depurarsi dalle scorie lo-fi mentre affiorava quella che era la vera ossessione musicale del loro leader: la psichedelia anni 60 (nelle più svariate forme). Tale percorso lineare venne portato a compimento da Donovan con il nuovo progetto The Peacers, ormai giunto al terzo lavoro con questo “Blexxed Rec”, anche se non molti se ne sono accorti dalle nostre parti: peccato veniale riferendoci a una band che fatica a emergere in un contesto ricchissimo d’artisti di livello superiore come Ty Segall (che coprodusse e suonò nel loro esordio omonimo), Thee Oh Sees, Mikal Cronin, Wand e perfino CFM e White Fence per limitarci alla scena californiana, mentre se allargassimo lo sguardo potremmo supporre di riferirci a un gruppo quantomeno poco rilevante.
“Blexxed Rec” non si discosta troppo dai predecessori e parte anche discretamente: l’uno-due iniziale “Ms. Ela Stanion’s School Of Acting” e “Ghost Of A Motherfucker” con fraseggi acid blues e coretti beat andati a male, chitarre sature e mood sixties sono piacevoli diversivi, ma a un ascolto attento l’atteggiamento scazzato e amatoriale potrebbero far pensare a un Hendrix decisamente più scarso e in fissa con il pop psichedelico o a dei Beatles troppo fatti per produrre un qualcosa che si avvicini a qualsivoglia forma d’arte. Gli spasmi garage dei Sic Alps ritornano solo nella successiva “Dickdog In Paris”, peraltro alternati a momenti di stasi lisergica, mentre a prevalere è una vena acustica e acid-folk che rimanda agli svarioni degli ultimi (pleonastici quanto deludenti) Brian Jonestown Massacre in “Stinson Teep”o alla meglio al Syd Barrett solista (le varie e inevitabilmente sghembe “Irish Suit”, “The Thunder Is An Electrical Love God”, “”Alloyed Sheik”) il cui santino sembra il principale nume tutelare, maggiore riferimento e ispiratore.
A conti fatti, sembra che i Peacers siano, a causa dell’idolatria eretica per la psichedelia sixties o per averne inquinato le radici dissacrandola, come condannati in un limbo dove debbano servire a tempo indeterminato ai propri ascoltatori questa pappetta psichedelica solo a tratti gustosa e acida al punto giusto, più spesso rimasticata e insipida; ma forse il vero peccato è che i loro lavori potrebbero invogliare a recuperare gli “originali” (la pur pregevole e dolcemente psych-pop “Dandelion” difficilmente può competere con l’omonimo brano dei Rolling Stones o con l’analogo “Dandelion Seeds” dei misconosciuti July, giusto per citare brani dal titolo uguale o quasi).
Paradossalmente, dopo di una serie di abusati effetti ed effettacci “stupefacenti”, a stupire davvero è la malinconia struggente della traccia conclusiva “Make It Right” nella cui melodia collidono le tracce emotive di grandi autori degli anni 90 come Pavement, Elliott Smith e Sparklehorse, tanto da indurre a un ozioso quanto retorico quesito (dalla risposta prevedibilmente negativa): che la fine dell’album sia un nuovo inizio per i Peacers?
30/10/2021