I Kikagaku Moyo hanno annunciato che “Kumoyo Island” sarà il quinto e ultimo album della band, dopodiché ogni membro si dedicherà ai propri progetti personali. La notizia dello scioglimento annunciato della band non è proprio un fulmine a ciel sereno: i Kikagaku Moyo sono sempre stati per natura elusivi ed erratici, divisi tra Olanda, Giappone, India e Stati Uniti, rinnegatori della stabilità e delle noie del vivere quotidiano. Del resto, la band fu fondata con dei proposti insoliti: la leggenda vuole che i cinque membri, Go Kurosawa (batteria), Tomo Katsurada (chitarra/voce), Kotsuguy (basso), Ryu Kurosawa (sitar) e Daoud Popal (chitarra), abbiano iniziato a suonare per le strade di Tokyo e che nessuno sapesse suonare lo strumento che avevano scelto: credeteci o meno, in effetti il fattore tecnico non è mai stato tra le priorità della band, che è famosa per dilungarsi in fumose jam psichedeliche rigorosamente improvvisate e dai risultati live altalenanti.
Il vagabondare dei Kikagaku Moyo pervade anche gli album realizzati dalla band: il primo Lp auto-titolato, uscito nel settembre 2013, e “Forest Of The Lost Children” del 2014 sembrano prendere ispirazione dal contesto psichedelico urbano di Tokyo, salvo poi rifugiarsi dentro un immaginario tempio buddhista, tra incensi e meditazioni profonde; il successivo “House In The Tall Grass” del 2016 era stato realizzato nel Nord del Giappone, tra le foreste e le montagne di Hokkaido, dove era prominente la dicotomia hard/folk; infine, il quarto “Masana Temples” del 2018, inciso in Portogallo con il produttore Bruno Pernadas, inglobava altre influenze, dal kraut al funky.
“Kumoyo Island” è stato registrato invece agli Tsubame Studios ad Asakusabashi, sobborgo di Tokyo, e suona immediatamente come l'aggiornamento del sound di “Masana Temples”: psichedelia languida e morbida in grana lo-fi (“Effe”, “Cardboard Pile”, “Meu Mar”), funky lisergici (“Monaka”, “Dancing Blue”, “Field Of Tiger Lillies”) e luccicanti filastrocche freak folk (“Gomugomu”, “Nap Song”), oasi ambient (“Daydream Soda”, “Maison Silk Road”), prog nipponico (“Yayoi”, “Iyayoi”).
L'album rimane su sonorità “innocue” rispetto agli esordi: roba per fricchettoni in pantaloncini, in cerca di relax sulla spiaggia, lontani dalla psichedelia oscura e meditativa degli esordi. Ad ogni modo, “Kumoyo Island” ha i suoi momenti pregiati: l'ipnotica “Dancing Blue” oppure il finale di “Maison Silk Road”, che richiama in maniera naif le suite di Ryuichi Sakamoto.
Non il migliore album, visti i numerosi cali di tensione e una scrittura non in grado di mantenere costante l'attenzione, dove manca il lato hard e quello psichedelico, a favore di un pop stonatello e auto-indulgente. Piacerebbe sperare in nuove prove, ma per il momento sappiamo che non sarà così.
21/05/2022