La trilogia è compiuta. Fiato alle trombe. Qualcuno chiami la Contessa Pia Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare. Issate le vele. Dieci, venti, cento casse di Dom Perignon. Anzi, facciamo settantadue. Le altre ventotto lasciamole al fresco, ché non si può mai sapere, riposte tra i vicoli di una balera metropolitana. Teniamole da parte, che è meglio, per dirla con Quattrocchi, puffo e vera rockstar, molto più di quelle che si ascoltano in giro oggi e che si credono maledette. Nessuno però offra da bere a Luigi La Rocca. Bontà di Dio! Lui e gli altri cittadini non sono invitati. Sono piuttosto la ragione per cui questo paese continua a rincorrersi per il varo. A ripartire da settantasei metri. A tagliare, appunto in nome di Dio, se stesso. E a lasciarsi inseguire dagli arcivescovi col naso grasso.
"2013-2021. Dal diario di Luigi La Rocca, cittadino. Cronaca di un viaggio troppo allucinante dalla tenebra della barbarie alla luce troppo meravigliosa della civiltà" è un cavallone di pensieri messi in fila come una filastrocca, altrove in forma canzone, tra sussurri, aforismi rubati con intelligenza all'autoproclamata borghesia, ai social, all'universo mondo del populismo, insomma raschiati dal fondo del secchio di questi ultimi disastrosi otto anni di vita.
Si parte dal 2013. E accade già l'impossibile. L'ironia travolge Andrea, il fratello che si crede musicista. E passa con un meraviglioso doppio carpiato alla retorica della pena capitale. Spuntano poi il sogno americano e il Ku Klux Klan evocato dai birilli che non sanno scrivere un tweet, figuriamoci se riescono a capire Pound, per ridimensionare i neri superdimensionati a caccia di donne bianche. A un certo punto saltano fuori pure "i cinesi da ammirare perché si danno da fare, grandissimi lavoratori che lavorano quando si deve lavorare, senza rompere i coglioni, senza protestare". La banalizzazione del mito del lavoro, paventata nel modo peggiore dalla sinistra italiana degli ultimi trent'anni, è cantata in ogni sua contraddizione. Mentre lo spazio di Zuckerberg assume le sembianze di un'agorà incontrollabile, patetico, bigotto, pericoloso ("Oggi un comunista su Facebook"). Non viene risparmiato nessuno. Dio per primo, assieme ai preti e ai vicini che fanno bordello ("Io dico no alla Chiesa"). E che magari Dio stesso ci scansi da quelli che si informano sul web e si credono liberi ("Io dico no a pagare le tasse per..."). Dalle torture agitate dagli animalisti. L'anno si apre e si chiude con Andrea. Un disgraziato felice che decide di farla finita.
Se le parole rimbalzano tra l'allegoria e la tragicommedia di un presente che ha superato la fantasia più indecente, la musica amplifica la burla, asseconda la danza sull'indesiderato palcoscenico. E lo fa con la maestria di chi è artigiano. Di chi con la musica prova a camparci per davvero. Di chi ascolta la vita tra i solchi di un vinile o le parole di un Vincenzo Spampinato. Una piccola grande orchestra. I Maisie sono fuochisti di piazza che sfottono il tempo lanciando in aria bacchette, corde, tasti, archetti, tutto di più.
Per accontentare i neofiti del prog si potrebbero scomodare i Gong, travestendoli ulteriormente di follia. Recita il libretto: chi sono i Maisie? Alberto Scotti (sintetizzatori, programmazione, editing), Cinzia La Fauci (voce, cori), Walter Sguazzin (basso, sintetizzatori, programmazione), Cristiano Lo Mele (chitarre), Riccardo Lolli (produzione, sintetizzatori, programmazione, editing), Edson Zuccolin (Sax), Vittorio Bonadei (batteria, percussioni). E poi una marea di ospiti, circa ottanta: Dario D'Alessandro degli Homunculus Res, Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari, Marco Bertoni di Confusional Quartet, Matteo Uggeri degli Sparkle in Grey, Alberto Garau ecc... Ecco, vi tocca "appunto" leggere il libretto. E magari comprare il disco. Questo benedetto disco dove tutto è festa e tutto è dramma. Dove Brunetta è uno Zero The Hero ribaltato dalla sua teiera volante e catapultato in uno squallido ufficio ministeriale ("Se uno ha veramente voglia di lavorare"). Mentre la solitudine viene strattonata tra una pausa e l'altra da strumenti che si comportano come giullari ("Un uomo è troppo solo senza un amico vero!").
La complessità, la delicatezza delle tematiche affrontate, scandite dal lato del verbo di un qualunquista che finisce paradossalmente per danneggiare il significato più nobile a monte di ogni sua stessa battaglia etica e morale, è assecondata dalla musica che tratteggia umori, pensieri, sogni "troppo brutti". È come se l'invettiva, perpetuata con genialità, respirasse attraverso chitarre, percussioni, trovate sparse. Financo i silenzi strizzano l'occhio al sarcasmo. Che rimane terribilmente lucido. Mai banale. Mai esoso. Al netto della durata. Un esempio? "L'iPhone è una cosa bella e molto importante! (Un pensiero per il quinto anniversario della morte del mitico e grandissimo Steve Jobs)".
I Maisie cantano la contemporaneità dopo averla scandagliata in tutte le sue contraddizioni. E per sancirne le derive decidono di catapultarsi sulla parte oscura della luna per inscenare davanti al sole l'ultimo concerto. L'ultimo banchetto dell'assurdo. "A chi dare il voto" è una progressione acustica che tenta di emulare le traiettorie folli delle indecisioni elettorali. "Sugli stranieri sto completamente cambiando idea" gioca invece con fare esotico sulle follie dei razzisti a gettoni.
La telecronaca delle singole canzoni potrebbe continuare per parecchio altro tempo. Si potrebbero citare in ballo i suoni ipnotici de "L'apericena". O l'andatura guascona di "Famiglia e l'inglese", altro capolavoro sull'individualismo utile. Oppure il basso iniziale con coro a cappella sullo sfondo di "Oliviero Toscani, il più grande fotografo!" prima che prenda quota l'irresistibile teatrino rock. E cosa dire del funky de "Le cose di marca"? O del synth sbilenco di "Io 'sto fatto che si deve amare la patria proprio non lo capisco"?
Tra un intermezzo e l'altro, si arriva a stazioni come "Ciao Andrea, mi vedi da lassù nel paradiso? Secondo te sto facendo le cose giuste? Sei un pochino fiero di me? Io ti voglio tanto bene, scusa per tutte le volte che ti ho trattato di merda (un pensiero per il sesto anniversario della morte di mio fratello Andrea)" che definiscono l'opera, la sua tragedia. Sia dal punto di vista narrativo che sonoro.
I Maisie barcollano allegri, cadono per finta, si rialzano, scherzano, talvolta per necessità, si guardano negli occhi gli uni con gli altri, sfracassano per liberare le terga di quelli che vanno ai comizi dei cinofili ("Tornatore spacca il culo!"). E soprattutto suonano da Dio per tutto il tempo.
Inimitabili.
30/04/2022