Marillion

An Hour Before It's Dark

2022 (earMUSIC)
alternative-rock, post-prog

Thank you for making me truly, truly alive
Una pausa di sei anni, la più lunga nella loro prolifica storia, ma i Marillion tornano ancora una volta. Più vivi che mai.
Dopo un biennio come quello appena subito dal mondo della musica, è già un traguardo ragguardevole essere un sopravvissuto. Tuttavia, la band di Aylesbury, con il suo diciannovesimo full-length in quarant'anni suonati di carriera, ha voluto ribadire il suo momento positivo, tenendo ancora alta l'asticella dopo l'ultimo acuto con "F.E.A.R.".

Come più volte ribadito su queste pagine, gli ex-principi del neo-prog ottantiano sono radicamente diversi da quelli che si presentarono nel 1982 come figliocci dei Genesis con "Market Square Heroes" rendendosi anzi alfieri dell'evoluzione del post-progressive dagli anni 90 in poi. A questa trasformazione ha sicuramente contribuito in maniera decisiva l'approccio diametralmente opposto del frontman Steve "H" Hogarth, succeduto a Fish nel 1989, ma anche nel contesto della sterminata epoca "hogarthiana" del quintetto non sono mancate ulteriori metamorfosi stilistiche. La più recente di queste fasi parte dalle ceneri di uno dei masterpiece della band, "Marbles" del 2004, avviando una crescita lunga e graduale con il produttore attuale Michael Hunter, non priva di scivoloni ed esperimenti riusciti a metà, ma sempre rivolta alla crescita e alla maggior consapevolezza dei mezzi artistici del gruppo.

Oggi i Marillion sono portatori di un post-prog fortemente incentrato sull'evocazione di immagini, una sorta di rock "cinematografico" che alla complessità e alle scorribande tecnicistiche tipiche del progressive, comunque mai del tutto abbandonate, antepone il desiderio di descrivere scenografie fortemente evocative e dinamiche, come registi della pellicola di un film. Come praticamente da sempre nella storia degli albionici, il produttore è un sesto membro a tutti gli effetti e "An Hour Before It's Dark" è il risultato di una simbiosi con Hunter che ha sì richiesto vari anni di assestamento, ma che oggi propone un nuovo lavoro convincente e roccioso praticamente in tutti i suoi 54 minuti.

Il miglior esempio possibile del momento stilistico degli inglesi è "Sierra Leone", punta di diamante del platter e praticamente un viaggio sonoro sulla falsariga di narrazioni musicali passate come "The Leavers", "Montreal" o "Asylum Satellite: #1".
La suite si svela timidamente con la scoperta, da parte di un minatore, di un grosso diamante che lo potrebbe aiutare a tirarsi fuori dalla miseria in cui vive. Il pianoforte di Mark Kelly culla l'ascoltatore con un morbido dondolio, mentre Hogarth racconta del "dormire sulla sabbia bianca della Sierra Leone". Steve Rothery, particolarmente ispirato, inventa un arpeggio notturno e onirico che accompagna i pensieri del fortunato trovatore, mano a mano che si concretizzano e prendono forza nell'inaudita scelta di non vendere il tesoro appena scoperto. La sua determinazione cresce e con essa il fraseggo del chitarrista di Whitby, fino a strutturarsi nel riff portante del brano:
I won't sell this diamond
Though I have no need for it
Except to be me
To do as I please
I will save this diamond
And I'll never be the same again
Finally I'm free
To have my own mind
For the first time in my life
Con tutto il suo mestiere nell'approccio emotivo alle composizioni, la band fa salire la tensione fino alla prima esplosione gridata dal timbro graffiante e ricco di H:
Walking free
In Freetown
Walking free
Dopo questa potente presa di coscienza, ascoltiamo/osserviamo il sereno incanto vissuto dal minatore mentre contempla il simbolo della sua nuova vita sotto le luci della notte stellata nella capitale africana, inebriato dagli scintillii indaco e verdastri che quasi riusciamo a vedere nelle corde pizzicate da Rothery, nelle gocce di pianoforte minimalista di Kelly o nei sinuosi saliscendi appena accennati dal bassista Trewavas ("Sparkle in the blue warm air of Sierra Leone") fino al climax definitivo: non sarà vendere questo diamante, sé stesso e l'ennesimo frutto di questo pianeta schiavizzato a donare un futuro a questo uomo, ma la dignità e il rispetto per sé stesso nel suo gesto di non farlo, in una potente manifestazione del libero arbitrio che gli ha donato Dio, la quale esplode con un'epifania nel coro grave:
This is more than treasure
This was sent to me from God
Sotto il piano tecnico, gli artisti inglesi restano sempre ben riconoscibili. Il disco suona Marillion al 100%: abbiamo i soliti assoli taglienti di Rothery - come in quello intensissimo e dilaniante di "Care" - sebbene il chitarrista sia maggiormente concentrato su un maturo lavoro di fino; un Mosley in diversi punti piuttosto ispirato (pregevole in "Be Hard On Yourself") sebbene immancabilmente flemmatico e un Hogarth che sfoggia tutto il suo ricco repertorio stilistico, dai ruggiti degli immancabili climax sparsi per l'album, passando per i versi sincopati e furtivi dell'intro funkeggiante di "Care", fino a momenti in cui la sua voce diviene flebile e tremolante, come nei commossi finali di "Sierra Leone" e "Care".

Le sonorità sembrano una rielaborata summa degli anni 2000 della loro carriera, che contiene tra le varie sfaccettature la raffinatezza di alcuni momenti di "Essence", il rock/trip-hop/funky elettronico di "AnorakNoPhobia" e le tempeste emotive di "Marbles". A portare freschezza e novità ci pensano i contributi del coro Coir Noir e degli archi del collettivo In Praise of Folly, i quali vengono coinvolti con ottimo senso della misura, intervenendo solo quando davvero funzionali al messaggio sonoro ma prendendo comunque la meritata parte da protagonisti nell'inno "The Crow And The Nightingale", forse il brano più spiazzante del lotto grazie alla sua drammatica teatralità e dove H, impersonatosi nello sgraziato corvo, omaggia la sua guida artistica Leonard Cohen, il dolce e nobile usignolo:
I can't fly but I'll open my rough beak
Squawk at the sky
The crow and the nightingale
Come sempre nella storia dei cinque, e qui in particolare per le vivide immagini mostrate dalle composizioni, un grosso peso specifico viene attribuito ai testi di Hogarth, che si spostano dalle tematiche politiche e sociali di "F.E.A.R." per avvicinarsi alle emergenze attuali, fra la crisi climatica e il rapporto con il pianeta di "Be Hard On Yourself" all'inevitabile rapporto con il virus, che passa dalla coppia melodica "Reprogram The Gene" e "Murder Machines", fino all'epico finale di "Care", monumentale tributo alla sofferenza, alla mortalità dei propri amati e a coloro che hanno dedicato le proprie vite al prossimo. Con la solita gemma di "Sierra Leone" a fare da pietra (di diamante?) angolare di tutte le tematiche di quello che è un concept de facto, come da marillica tradizione.

Non manca qualche difetto, presente giusto in "Reprogram The Gene", di fatto una buona cavalcata rock melodica snodata in tre sezioni, che, dopo una prima parte particolarmente grintosa e di personalità, si perde un po' nel resto con alcune transizioni che potevano e dovevano essere meglio asciugate e sintetizzate. Ironia della sorte, proprio questo brano dimostra come dopo quarant'anni i Marillion non siano ancora riusciti a essere perfetti nella scrematura di alcune anche minime divagazioni, come se avessero un gene impossibile da riprogrammare. Un errore nella catena genetica che stona in mezzo a tanta cura dei dettagli ma sul quale in questa misura si può soprassedere a cuor leggero.

"An Hour Before It's Dark" offre la massima espressione di ciò che i Marillion sono diventati in questi anni Venti a dispetto di età e momenti bui. Dopo quarant'anni di carriera è sbalorditivo essere ancora capaci di andare a segno in questo modo.
Riusciranno a sorprendere nuovamente in futuro?

03/03/2022

Tracklist

  1. Be Hard On Yourself
  2. Reprogram The Gene
  3. Only A Kiss
  4. Murder Machines
  5. The Crow And The Nightingale
  6. Sierra Leone
  7. Care


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