Alice In Chains

Alice In Chains

Vivere e morire a Seattle

Tra i protagonisti del revival hard-rock anni 90, e parte fondamentale dell'uragano grunge, la band guidata da Layne Staley e Jerry Cantrell ha sfidato e incontrato la morte più volte. Sino all'inevitabile scioglimento e all'inattesa seconda vita

di Emiliano Merlin e Claudio Lancia

Gli Alice In Chains sono stati, nel bene e nel male, uno dei gruppi più influenti degli anni 90. Hanno creato un sound particolarissimo fatto di chitarre metalliche e melodie vocali alienanti, destinato a essere ripreso da una folta schiera di gruppi negli anni seguenti; ai quali, tutti, mancheranno però alcune doti fondamentali: la sincerità nel mettere in musica malesseri reali e profondi, un gusto compositivo sopraffino come quello di Jerry Cantrell e, soprattutto, una voce unica e indimenticabile come quella di Layne Staley. C'è chi sostiene che gli Alice In Chains siano stati abili a cavalcare l'onda della moda grunge, ma col senno di poi risulta difficile non riconoscere l'autenticità e la grandezza del loro talento.

I primi passi

Il gruppo si forma a Seattle nel 1987, dalla fusione di due band street-glam metal: gli Alice 'N Chains e i Diamond Lie, i primi guidati dal cantante Layne Staley, i secondi dal chitarrista Jerry Cantrell. Quando Staley si unisce al combo di Cantrell, insieme al bassista Mike Starr e al batterista Sean Kinney, la nuova band inizia a sterzare lentamente, evolvendo il proprio suono dal tipico hard-glam di quegli anni verso qualcosa di differente, restando al momento ai margini della "nuova onda" che sta rendendo Seattle un polo creativo sul punto di deflagare su scala mondiale.
Se in quel periodo i Nirvana si muovono su coordinate vicine all'hardcore-punk, se i Soundgarden viaggiano tra Black SabbathLed Zeppelin, se i Mudhoney sono i puristi dell'hardcore, gli Alice In Chains creano uno stile legato ai canoni del metal più mainstream, esasperandone il lato claustrofobico, rallentando i beat, rendendo i toni cupissimi, quasi rifacendosi alla tradizione dark. Il gruppo modella il proprio suono sulle caratteristiche luciferine della voce di Staley, in grado di stupire pur senza avere un'estensione fuori dal comune né una tecnica particolarmente curata.

Dopo la registrazione (con Rick Parashar, il producer di "Ten") di alcuni demo, nell'agosto del 1990 arriva l'esordio con l'album Facelift, su Columbia, subito una major, a dimostrare l'attenzione con cui l'industria discografica teneva d'occhio la scena indipendente di Seattle, che sarebbe esplosa l'anno successivo grazie a "Nevermind". Facelift è un disco non del tutto maturo, che alterna momenti esaltanti ad altri - per lo più nella seconda metà - decisamente superflui, quando non al limite dell'imbarazzante: "Put You Down" o la funkeggiante "I Know Something About You", episodi ancora legati a certi cliché del decennio prcedente, destinati a non avere seguito. La lista dei brani memorabili è comunque già notevole, a partire dal portentoso uno-due d'apertura: la potentissima, breve e incisiva "We Die Young" - dal titolo tristemente premonitore e già edita in un promo Ep pubblicato un mese prima - e la sincopata ed epica "Man In The Box". Rock monolitico e schiacciasassi, senza mezzi termini. Le linee guida del sound Alice In Chains sono solo abbozzate, ma già evidenti: la chitarra di Cantrell corposa, rovente e sempre in primo piano, e la voce di Staley (in questo primo disco nel pieno della sua veemenza giovanile, ancora non perfettamente focalizzata in termini di espressività, ma capace di vocalizzi potentissimi) a tracciare allucinate melodie o a urlare esplosioni di rabbia. "I'm a man in the box/ buried in my pit/ won't you come and save me?", è la disperata richiesta d'aiuto di Layne, che dietro alla maschera da maudit cela la natura di ragazzo (troppo) sensibile e incapace di adattarsi al mondo. Prova ne sia anche l'atteggiamento una volta sceso dal palco, quando, in aperto contrasto con la cupezza della sua musica, si trasforma in un vero e proprio goliarda, e del resto tutti e quattro gli elementi del gruppo sono sempre stati animati da una forte vena ironica fuori dalle scene.
Layne inizia così a impersonare la maschera del clown triste di fine secolo. È in questo periodo, quando il successo investe il gruppo e la pressione sui quattro ragazzi poco più che ventenni si fa imponente, che entrano in gioco le droghe pesanti, che lasceranno un segno indelebile sul più emotivamente vulnerabile, Staley appunto. Tornando alla musica, occorre citare almeno un altro episodio di Facelift, la lunga, onirica, pesantissima "Love, Hate, Love", nella quale, su un tempo prossimo alla stasi, un sinistro arpeggio e un cantato funereo raccontano parole di sconsolazione, solitudine e ira, esplodendo nel finale in un urlo che anziché essere liberatorio implode in sè stesso, lasciando un senso di angoscia mortale. La potenza della voce di Staley è qui impressionante, l'armonia giocata sui semitoni rende appieno il senso di disperazione. La poetica degli Alice In Chains viene messa a fuoco lucidamente, e si basa in parti uguali sulla funerea cupezza di uno Ian Curtis e sulla rabbiosa potenza dei Black Sabbath, fondendo metal, dark, rock, e una vena di pop malata.

Nonostante i difetti, Facelift ottiene un buon successo, diventando il primo album della scena di Seattle a diventare disco d'oro, arrivando a vendere nel tempo oltre due milioni di copie nei soli Stati Uniti. Gli Alice In Chains vanno in tour con Iggy Pop, Van Halen, Poison ed Extreme, incrementando la propria popolarità. Per battere il ferro finchè è caldo, il gruppo sforna nel febbraio del 1992 un Ep, ma anziché dare vita a un lavoro basato sulla falsariga di quanto appena prodotto, Cantrell e soci optano per quattro brani acustici, folkeggianti, scarni. Sap coniuga un certo gusto per il grottesco con l'amore per le melodie, e senza potersi definire un capolavoro risulta un dischetto godibile.
L'Ep si apre con "Brother", nenia psichedelica nella quale le voci di Staley e Cantrell (che inizia a sostenere sempre più spesso il vocalist nelle parti cantate, rendendo le armonie vocali un vero e proprio marchio di fabbrica del loro sound) disegnano arabesque orientaleggianti. "Got Me Wrong" è un lento funk acustico con ritornello urlato, il divertissement "Right Turn", accreditata agli improbabili "Alice Mudgarden", cela i divertiti cammeo vocali di Chris Cornell (Soundgarden) e Mark Arm (Mudhoney) (impressionante la somiglianza delle voci dei tre nelle timbriche medio basse), la spettrale "Am I Inside" è un canto funebre per voce maschile, voce femminile (Ann Wilson, degli Heart) e chitarra arpeggiata.

Nel 1992 gli Alice In Chains appaiono nel film di Cameron Crowe "Sinlges", appassionata cartolina della Seattle del periodo. La band interpreta sè stessa mentre suona dal vivo in un club e contribuisce con "Would?" - uno dei loro brani di maggior successo - alla colonna sonora della pellicola. Il videoclip di "Would?" sarà premiato agli MTV Video Music Awards del 1993 nella categoria "Best Video from a Film".

Arriva il capolavoro: Dirt

Intanto i Nirvana sono diventati i Nirvana e Seattle il fulcro della musica mondiale: è tempo di raccogliere i frutti di quanto seminato, e gli Alice danno alla luce il loro capolavoro, immerso in una cupezza e in un'angoscia tali che solo l'hype di quegli anni ha potuto renderlo un successo da milioni di copie. Si fa appena in tempo a premere il tasto play che un muro di chitarre e un urlo angosciato si abbattono sull'ascoltatore, afferrandolo per la gola e scaraventandolo in un abisso di decadente, morbosa metallicità, di inaudita violenza psicologica e sonora. L'inno sofferente e sconvolto "Them Bones", due minuti e trenta secondi di lucida disperazione, apre il lavoro più venduto degli Alice In Chains, Dirt, pubblicato il 29 settembre del 1992. Chitarre enormi e roventi, perfetto equilibrio tra pulizia sonora e potenza, tempo dispari in 7/8, e una voce che impersona l'urlo di una generazione disperata, il canto di un uomo abbandonato in balia di fantasmi divenuti realtà. "I believe / them bones are me" attacca Staley con il canto nasale e luciferino, combinato con quello più tradizionale di Cantrell, intrecci vocali che potebbero essere stati concepiti dai Beatles, se fossero stati iper depressi ed eroinomani.
Dirt non dà tregua: chiusa in modo improvviso, quasi a ripiegarsi su se stessa, la prima traccia, esplode il rock quadrato e violento di "Dam That River", devastante grazie alla superba interpretazione vocale, e il trip psycho-stoner "Rain When I Die", oltre sei minuti in tempo di 6/4, con uno Staley al vertice dell'espressività e della potenza vocale. "Sickman" toglie definitivamente ogni dubbio: a una strofa percussiva, veloce, violenta, con un canto sguaiato e urlato, contrappone un ritornello al limite della morbosità concepibile, figliastro illegittimo di "Love, Hate, Love", rallentato all'inverosimile, basato su un arpeggio dissonante e distorto e cullato da una voce che intona una nenia buia ("I can see the end is getting near/... ah, what's the difference, I'll die in this sick world of mine"). Non c'è speranza di redenzione.

"Rooster", brano dedicato da Cantrell all'esperienza in Vietnam del padre, è un'insperata e improvvisa oasi di pace, almeno per i primi minuti: il dolce arpeggio chitarristico cela l'efferatezza del testo ("Ain't found a way to kill me yet... seems every path leads me to nowhere"), fino all'esplosione sonora del ritornello dove Staley impressiona nuovamente per potenza e passionalità. Di qui in poi è una vera e propria discesa nel baratro: i cinque brani successivi tracciano l'ideale percorso verso quel punto di non ritorno che una mente e un corpo possono percorrere se sconvolti dalla droga. La droga è il demone di Staley, in essa trova rifugio dal mondo e dal proprio male di vivere, un terribile e irreversibile dolore. "Junkhead" ("testa di tossico") descrive la fase iniziale della caduta, giostrata su un riff sbilenco e pesante, inframmezzata da un ritornello tra i più melodici e potenti del disco, dove Layne intona la propria ode all'abuso di velvettiana memoria ("If you let yourself go and opened your mind I bet you'd be using like me, and it ain't so bad"). "Dirt", la title track, si basa su un lentissimo riff dal gusto arabeggiante: l'euforia è stata un attimo di respiro, è già scomparsa, subentra l'angoscia ("I want you to kill me and dig me under, I wanna live no more"). "Godsmack", interlocutoria dal punto di vista della sequenza concettuale, è invece molto interessante musicalmente, più veloce e "rock" rispetto ai brani che la circondano, resa unica da un'interpretazione vocale da brivido che rende alla perfezione le sensazioni del tossico in crisi, con tanto di tremore vocale e delirio conseguente. Preceduto da un breve intermezzo strumentale, demonizzato dalla mefistofelica risata di un Tom Araya in prestito dagli Slayer, arriva poi "Hate To Feel", un blues distorto e feroce, sgocciolante acidità, con un bellissimo assolo hendrixiano di un Cantrell ormai definitivamente maturato sulla sua chitarra. Infine "Angry Chair", capolavoro della paranoia in musica, una strofa che fa dell'apatia la sua arma per sconvolgere quel che resta della lucidità mentale dell'ascoltatore, abbattendolo con una melodia monocorde, un cantato ipnotico arricchito con delay ed effetti a renderlo ancor più impressionante, e un ritornello falsamente consolante che in realtà canta la resa finale all'ineluttabile rovina.
Resta lo spazio per un'altra oasi di melodia, per certi versi il vertice assoluto del disco, un canto di morte e abbandono che, pur non essendo direttamente legato al "concept" appena chiuso, ne è l'ideale ultimo atto. È "Down In A Hole", ballata apocalittica dove l'intreccio tra le voci di Cantrell e Staley raggiunge l'apice del pathos: "Bury me softly in this womb" è la preghiera iniziale, "I've eaten the sun and my tongue has been burnt of the taste" è l'ammissione di colpa di un uomo desolato davanti al proprio destino. Cinque minuti di melodie dolcissime e muri di chitarre: un vero masterpiece. Il disco potrebbe chiudersi qui, ma in coda gli Alice hanno voluto mettere un brano di composizione anteriore a quella di tutti gli altri, già noto al pubblico perché usato nella colonna sonora del già citato film "Singles" di cameron Crowe: "Would?", un alt-rock dal grande impatto melodico ed emotivo, è la chiosa al disfacimento precendente, la definitiva dichiarazione di resa anche laddove ci fosse volontà di riscatto, perché la solitudine impedisce qualsiasi guarigione ("If I would, could you?").

Dirt venderà quattro milioni di copie nei soli Stati Uniti, restando nelle chart di Billboard per ben due anni, gli Alice In Chains diventano delle superstar mondiali e la partecipazione al Lollapalooza del 1994 (che sarà l'ultimo tour con Layne Staley) li premia anche nella dimensione live, dove a scapito della precisione e della cura del suono - si respirano nei lavori di studio - hanno la meglio potenza e irruenza. Iniziano a farsi più seri i problemi legati all'abuso di droghe: il bassista MiKe Starr si trova costretto ad abbandonare la band, sostituito da Mike Inez, già nella band di Ozzy Osbourne.
Nell 'aprile del 1993 le prime due ottime tracce registrate con il nuovo bassista, "What The Hell Have I?" (una "Dirt" accelerata che sfocia in un ritornello dai toni epici) e "A Little Bitter" (che anticipa quelle che di lì a qualche anno saranno le sonorità tipiche del "nu-metal") finiranno nella colonna sonora del film "Last Action Hero".

Fra i giganti del Grunge

Il successore di Dirt, nel gennaio del 1994, sarà un altro Ep semiacustico, stavolta agli antipodi rispetto alla sobrietà di Sap. Il sound è denso di arrangiamenti quasi barocchi, sovraincisioni vocali, di chitarre, archi e percussioni. Si intitola Jar Of Flies ed è fra le migliori pubblicazioni del quartetto, pur se distante anni luce dalla dimensione più congeniale al gruppo, quella del muro di chitarre distorte. Sette tracce, molte delle quali di ineguagliata brillantezza, dal blues malato dell'opener "Rotten Apple", dall'indolente incedere onirico, all'intimismo acustico di "Nutshell": quattro minuti di pura poesia musicale, un giro in tre battute composto unicamente di due accordi, mi minore e do, un assolo memorabile nel finale, e un testo da brividi. "My gift of self is praved/ My privacy is raped/ And yet I find repeating in my head/ if I can't be my own I'd feel better dead". Seguono l'epica e fiabesca "I Stay Away", vagamente reminiscente di certe sonorità prog, al perfetto pop decadente di "No Excuses", la malinconia country sfociante nel gospel di "Don't Follow", la divertita "Swing On This", il ricamo strumentale "Whale & Wasp", in cui le chitarre di Cantrell sembrano dipingere un tramonto.
Il marchio di fabbrica è sempre più la tecnica di "sedimentazione" di più incisioni vocali, a volte divise tra Staley e Cantrell ("No Excuses"), sempre più spesso opera del solo Layne, che sovraincide su intervalli a volte inusuali tre-quattro tracce di canto, rendendo inconfondibile il sound d'insieme. In questo modo è molto più difficile far valere le proprie doti interpretative (comunque evidenti nei brani meno elaborati in tal senso, come "Nutshell" o il finale di "Don't Follow"), ma l'effetto di alienazione e stordimento è estremizzato alle massime conseguenze, e su brani costruiti su armonie e arrangiamenti abbastanza convenzionali il risultato è quantomeno inusuale. Le voci sovraincise di Staley sono le voci di tre, cento, mille uomini, tutti uguali e tutti arresi al cospetto delle proprie paure, un gospel di fine millennio, un disperato canto di schiavi moderni.

Jar Of Flies, scritto e registrato di getto in una sola settimana, debutta direttamente al numero 1 della Billboard Top 200, divenendo il primo Ep della storia ad ottenere un simile risultato, e la prima pubblicazione degli Alice In Chains a raggiungere la cima delle classifiche di vendita. Ma i problemi legati alla tossicodipendenza di Staley divengono davvero gravi, e il gruppo subisce una prima, pesante battuta d'arresto, trovandosi costretto a cancellare il tour previsto per l'estate del 1994. Staley inizia un percorso di disintossicazione che purtroppo non riouscirà mai a liberarlo dalla schiavitù dall'eroina.

Ma un piccolo barlume di speranza si accende, proprio quando voci insistenti li danno oramai per spacciati. E' lo stesso Staley a rifarsi vivo per primo col side-project Mad Season, supergruppo al quale partecipano il chitarrista Mike McCready dei Pearl Jam, il batterista Barret Martin degli Screaming Trees e il bassista John Baker Saunders dei Walkabouts. Staley canta e realizza l'artwork, la band terrà una serie di concerti e il 14 marzo del 1995 pubblicherà un intenso e bellissimo unico album di blues acido e psichedelico, Above, nel quale troverano posto anche due featuring di Mark Lanegan. Nel tempo Above saràriconosciuto come uno dei dischi fondamentali del Seattle sound, e nel 2013 sarà ricordato con un'imperdibile edizione rimasterizzata, contenente la cover "I Do Not Wanna Be A Soldier" e ulteriori quattro tracce che avrebbero dovuto far parte di un secondo album che non vide mai la luce. Questa lussuosa deluxe edition contiene anche la registrazione live di un conceto tenuto nel 1995 e il relativo Dvd.

L'inevitabile scioglimento

Quando l'ipotesi di scioglimento sembra prendere, il 7 novembre del 1995 esce a sorpresa il terzo album del gruppo, intitolato semplicemente Alice In Chains , ma noto anche come "Tripod" per via della foto di copertina che immortala un cane a tre zampe. È un disco claustrofobico, sperimentale (nella scrittura più che nei suoni, vicini invece al classico muro chitarristico del gruppo ma in generale con minor impatto, soprattutto nel missaggio dei suoni di batteria), ancora più cupo del predecessore. Viene abbandonato qualsiasi riferimento al blues, e si inglobano influenze "post", anche se è sempre l'hard-rock a farla da padrone. Se musicalmente l'album è lievemente inferiore alle attese, pur non mancando brani di ottimo livello (l'opener "Grind", ancora una volta giocata sui toni epici cari al gruppo; la ballata elettrica "Shame In You", forte di un emozionante giro melodico e di piacevoli invenzioni chitarristiche di Cantrell; "Sludge Factory", granitica e subito classica; la lunga "Frogs", con una interminabile, caracollante coda psichedelica, il singolo "Again" e la sbilenca "God Am"), e se a livello vocale l'interpretazione di Staley non può più dirsi all'altezza del passato (l'affaticamento è evidente, ed è solo parzialmente mascherato dal solito mare di sovraincisioni vocali - invero ancora molto suggestive, stranianti e particolari, ma sempre più un palliativo per sopperire alle difficoltà di reggere melodie impegnative), sono i testi questa volta a brillare di luce propria.
La maturazione compositiva di Staley è completa e lo rende capace di versi in cui, senza abbandonare rime e metrica, concetti e vocaboli raggiungono profondità notevolissime, tra sconsolate imprecazioni ("Dear God, how have you been, then? I'm not fine, fuck pretending/ all of this death you're sending/ best throw some free heart mending/ Invite you in my heart, then/ when done, my sins forgiven?/ This god of mine relaxes/ world dies I still pay taxes" - "God Am") e riflessioni amare sulla propria solitudine ("What does friend mean to you?/ a word so wrongfully abused/ are you like me, confused? All included but you alone" - "Frogs"). Cerca di farsi largo anche Jerry Cantrell, che canta interamente "Heaven Beside You" e regge le parti vocali principali di altri due ("Grind", "Over Now"). La differenza di carisma è però impietosa nei confronti di Cantrell. Alice In Chains debutterà direttamente al numero 1 delle chart di Billboard e le vendite saranno nel tempo certificate negli Stati Uniti con un doppio disco di platino. Nonostante il successo ottenuto la band deciderà di non intraprendere un tour promozionale a sostegno del disco, a causa dei sempre più evidenti problemi di salute di Staley.

La storia musicale degli Alice In Chains di fatto si conclude qui. Resta lo spazio per qualche rara esibizione live, come nel caso delle quattro date a sostegno del reunion tour dei Kiss nel 1996, con uno Staley fantasma di sè stesso, avviluppato da un pesante completo nero e con guanti da motociclista, aggrappato all'asta del microfono, eppure vocalmente all'altezza delle attese. Al termine dell'ultimo show Staley venne ricoverato in ospedale a seguito di un'overdose di eroina.
Il 10 aprile del 1996 gli Alice In Chains erano stati protagonisti di un emozionante spettacolo acustico registrato per la serie MTV Unplugged, nel quale propongono molti dei loro maggiori successi e l'inedita "Killer Is Me", cantata da Cantrell. Per la prima volta la line up è allargata a un quinto elemento, il chitarrista Scott Olson. Nel luglio dello stesso anno la performance sarà pubblicato sia su disco (MTV Unplugged, amatissimo dai fan) che su Dvd. Seguiranno qualche raccolta con un paio di inediti e molte interviste, fra le quali una celeberrima rilasciata da Layne a Rolling Stone, nella quale il cantante si confessa sulla sua ormai inguaribile dipendenza dall'eroina.
Sempre nel 1996 la band si esibì il 20 aprile allo show televisivo Saturday Night Special (suonando "Again") e il 10 maggio al Late Show di Letterman ("Again" e "We Die Young").

Jerry Cantrell, impossibilitato a proseguire il percorso con Staley, decise di avviare la propria carriera solista, che frutterà l'apprezzato Boggy Depot (1998, Columbia, con la partecipazione di Sean Kinney e Mike Inez) e il successivo Degradation Trip (2002, Roadrunner). Quest'ultimo verrà ristampato alla fine dello stesso anno in una doppia limited edition, intitolata Degradation Trip Volumes 1 & 2.

Layne Staley iniziò una vita da recluso lasciando sempre più raramente il condominio di Seattle dove viveva, specie dopo al morte per overdose dell'ex fidanzata Demri Parrott, avvenuta il 29 ottobre del 1996. Nell'ottobre del 1998 Staley riunì gli Alice In chains per registrare due nuove canzoni, "Get Born Again" e "Died", che finiranno nel box set Music Bank, edito a fine 1999 e contenente 48 tracce, incluse rarità, demo e materiale inedito. Ne venne anche pubblicata una versione ridotta, con soli 15 tracce, intitolata Nothing Safe: Best Of The Box. Seguiranno nel 200 un disco dal vivo (Live) e nel 2001 la fortunata compilation Greatest Hits.
Nel frattempo, dopo anni di voci rincorse sul suo reale stato di salute, il 19 aprile del 2002 Layne Staley viene trovato morto per overdose nella sua casa di Seattle. Vegetava da mesi in completa solitudine. Il suo corpo viene scoperto a due settimane dal decesso. Un'uscita di scena triste e misera, lontana dalla platealità dell'ultimo disperato gesto dell'altra (e più nota) icona di Seattle. L'ultimo inevitabile amaro atto di una vita disperata e (troppo) sincera.

La seconda vita degli Alice In Chains

Se da sempre sono ritenuti inimmaginabili i Pearl Jam senza la presenza istrionica di Eddie Vedder, o i Soundgarden senza la voce di Chris Cornell, gli Alice In Chains dimostreranno di poter degnamente sopravvivere anche privi dell'icona luciferina Layne Staley, grazie al privilegio di poter schierare nella propria formazione un altro fuoriclasse del calibro di Jerry Cantrell, principale compositore del gruppo, oltre che abile chitarrista e cantante. La band infatti tornerà in scena quattordici anni dopo, riprendendo il discorso esattamente dove si era interrotto. Confermati alla sezione ritmica Sean Kinney (batteria) e Mike Inez (basso), Cantrell presenterà al mondo il nuovo cantante William DuVall, con un timbro di voce che ricorderà molto da vicino proprio quello di Staley.

Black Gives Way To Blue
(2009) è un nuovo inizio sul quale già dalle prime note dell'iniziale "All Secrets Known" aleggia lo spirito del vecchio Layne, tanto da sembrare lui stesso a cantarne l'incipit. Se siete fra coloro che hanno scoperto e apprezzato gli Alice In Chains soltanto con il celeberrimo Unplugged, qui ci sarà di che abbeverarsi nella cristalline acque di "Your Decision", di "When The Sun Rose Again" e soprattutto della conclusiva title track, che vede ospite d'onore al piano Sir Elton John.
Se in "Check My Brain" i "nuovi" Alice In Chains cercano di fare i ruffiani attraverso un ritornello smaccatamente pop, altrove le atmosfere si fanno lente e cupe (in "Acid Bubble") o tendenti al metal ("A Looking In View", "Last Of My Kind"). Risultati apprezzabili si ottengono nelle vie di mezzo, ben rappresentate dal fruibile trittico "Lesson Learned" - "Take Her Out" - "Private Hell". In 54 minuti che scorrono via senza troppi sussulti, si conferma il mood che rese la band internazionalmente famosa, evitando qualsiasi improvviso cambio di rotta.

L'8 marzo del 2011 la morte torna ad abbattersi sugli Alice In Chains: il corpo del primo bassista della formazione, Mike Starr, viene trovato privo di vita in un residence di Salt Lake City. Starr ebbe in passato seri problemi di dipendenza dall'eroina, tanto da trovarsi costretto ad abbandonare la band nel 1993, sostituito da Mike Inez. Pochi giorni prima del decesso era stato arrestato dalla polizia in quanto sospettato di essere in possesso di sostanze stupefacenti.

Metabolizzata questa nuova scomparsa, Cantrell e soci proseguono il proprio percorso discografico: nel 2013 l'interlocutorio The Devil Put Dinosaurs Here aggiunge poco alla storia della band, ma contribuisce a mantenerla saldamente in tour per il globo.

Il 24 agosto del 2018 arriva il terzo atto della seconda vita degli Alice In Chains: Rainier Fog, che regala tanto mestiere ed emozioni col contagocce. Ritornelli epici, raddoppio delle voci, riff granitici, aperture melodiche, soli assassini: gli ingredienti sono sempre i medesimi. La band punta tutto su un hard rock trasmutato in american rock da FM, di buona fattura ma a tratti plasticoso (“Fly”, “Never Fade”), alla ricerca di quel passaggio radiofonico che rischia però di trasformarli più nei nuovi Boston che non in una ricontestualizzazione degli eroi di “Would?”. Poi, certo, a tratti si sobbalza sulla sedia per l’impressionante somiglianza – ma non è neanche più una novità oramai - fra la voce di Robert DuVall e quella di Layne Staley, specie nelle linee del cantato che rendono “Deaf Ears Blind Eyes” e “So Far Under” i brani più prossimi al sound (e alla vocalità) dei tempi d’oro.
Jerry Cantrell continua ad essere il principale songwriter di una band che ha venduto oltre 35 milioni di copie, ma stavolta per chi ha amato “Dirt” e “Facelift” i motivi di reale interesse sono meno del solito: molta energia ma troppo materiale sostanzialmente innocuo. Le struggenti ballad “Maybe” e “All I Am” vorrebbero sopire vecchi languori, ma sono la copia carbone di idee già riproposte più volte. E’ una storia un po’ sbiadita quella degli Alice In Chains targati 2018: fra ricordi dei tempi che furono e omaggi ai compagni di ventura scomparsi anzitempo, Rainier Fog è consigliabile giusto ai nostalgici dei primi anni 90.

*Contributi di Martina Vetrugno

Alice In Chains

Discografia

ALICE IN CHAINS:
We Die Young (Ep, Columbia, 1990)

6

Facelift (Columbia, 1990)

6

Sap (Ep, Columbia, 1992)

6

Dirt (Columbia, 1992)

8

Jar Of Flies (Ep, Columbia, 1994)

8

Alice In Chains (Columbia, 1995)

7

MTV Unplugged (Live, Columbia, 1996)

7

Nothing Safe: Best Of The Box (Compilation, Columbia, 1999)
Music Bank (Box set, Columbia, 1999)
Live (Live, Columbia, 2000)
Greatest Hits (Compilation, Columbia, 2001)
The Essential Alice In Chains (Compilation, Columbia, 2006)
Black Gives Way To Blue(Virgin, 2009)6,5
The Devil Put Dinosaurs Here (Capitol, 2013)6
Live Facelift (Live, Sony, 2016)
Rainier Fog (BMG, 2018)5
MAD SEASON:
Above (Columbia, 1996)8
Above (Deluxe Edition, Columbia, 2013)8,5
JERRY CANTRELL:
Boggy Depot (Columbia, 1998)
Degradation Trip (Roadrunner, 2002)
Degradation Trip Volumes 1 & 2 (Roadrunner, 2002)
Brighten(Double J Music, 2021)
Pietra miliare
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